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Sponge city: il modello urbano per affrontare le piogge intense

Sponge city: una spugna sotto il lavandino
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Il modello sponge city, traducibile in italiano con città spugna, è la risposta al sempre più concreto rischio di inondazioni, siccità ed eventi estremi. Il cambiamento climatico, come sappiamo, ci rende più vulnerabili e richiede maggiore resilienza, oltre a una ripianificazione, anche profonda, dei centri urbani che abitiamo. Una valida soluzione è rappresentata dagli adattamenti basati sulla natura e i suoi ritmi. Metropoli e città di dimensioni più esigue potrebbero modificare radicalmente la loro reazione alle condizioni meteorologiche estreme aumentando la loro spugnosità. Questo è quanto ci dice lo studio realizzato da ARUP: Global Sponge Cities Snapshot.

Sponge city contro il cambiamento climatico

Il concetto di città spugna, a oggi, è quello che convince di più gli urbanisti che si occupano di tutelare le città. La necessità di ridurre l’impermeabilità del nucleo cittadino è conclamata, così come il desiderio di riconsegnare un suolo più poroso alla comunità locale. La spugnosità di una città è quel valore che ne determina la resilienza alle variazioni climatiche e geologiche e si basa su tre fattori principali: la disponibilità di spazio blu e verde, la tipologia di suolo e il potenziale di deflusso idrico. Il dossier di ARUP comprende una speciale classifica che elenca le migliori città al mondo per spugnosità.

La città più virtuosa è Auckland, capitale neozelandese, mentre Londra e Shanghai, ambedue molto vulnerabili ai capricci del meteo, cercano di tenere lo stesso passo. Berlino, Breslava, Vienna e Budapest hanno già annunciato di volersi trasformare in questo senso e inizieranno a convertire i cortili condominiali in parchi dalla superficie permeabile. Nella capitale tedesca, i lavori sono in procinto di iniziare mentre alle altre latitudini si è ancora in fase di planning. La Cina è stato il primo paese a parlare di sponge city. A Shanghai si sono inserite pavimentazioni permeabili già da tempo, e questa iniziativa ha ispirato numerose imitazioni.

Singapore, nota per la sua avanzata pianificazione urbanistica, ha adottato un approccio integrale. Alla rete intricata di parchi, giardini verticali e sistemi di drenaggio che già contraddistinguevano la città Stato, si è affiancato un sistema di bacini di raccolta delle acque piovane e una gestione tecnologica dell’intero approvvigionamento idrico. Il nostro Paese, come potavamo attenderci, è tra gli ultimi della classe. Il tasso di impermeabilizzazione dei nostri suoli è il più elevato del continente, assieme a quelli di Germania e Lussemburgo.

Il punto di vista dell’esperto

Sponge city: una città con un'area verde
Il concetto di sponge city mira al recupero delle acque piovane e all’integrazione del verde

Kongjian Yu è, con ogni probabilità, il massimo esperto mondiale di sponge cities. Si è occupato personalmente delle soluzioni installate a Shanghai e ha acquisito un importante know how. A suo avviso, è indispensabile imparare a rispondere in modo resiliente agli effetti del cambiamento climatico. Occorre fare della natura una nostra alleata, imparando dalla sua capacità adattiva. Yu consiglia agli urbanisti di non mettersi mai in competizione con essa, bensì di imparare a collaborarci. Una città spugna deve puntare a fare uso di almeno il 70% di acque alluvionali per il suo fabbisogno idrico. Dovrebbe perciò iniziare a pianificare un sistema di raccolta nelle zone a rischio esondazione.

È laddove vi è la principale minaccia che si deve intervenire. Agiamo a partire dai quartieri maggiormente impermeabilizzati e avviamo una riqualificazione che crei reti verdi e blu, tanto complesse quanto elevato è il tasso di rischio idrogeologico dell’area su cui il nucleo urbano insista. Non esiste un’unica ricetta per dare vita a una sponge city. Ogni progetto è indipendente e a sé stante, dipenderà infatti da una serie di elementi e fattori propri e unici. Smettiamo di incanalare le acque in condotte di cemento allo scopo di direzionarle dove ci sembri più adatto. Progettiamo città che non intralcino il corso fluviale, bensì lo assecondino, lasciando il letto libero di espandersi, qualora ne avesse bisogno.

L’Italia non sembra capace di adattarsi a questo modello

Il nostro Paese, colpito da alluvioni e inondazioni con una frequenza quantomeno allarmante, sembra avere grossi problemi a conformarsi al modello sponge city. Numerose personalità, come ad esempio Giulio Betti, meteorologo del CNR, non perdono occasione per sottolineare che sarebbe necessario poter contare su una pianificazione urbanistica più flessibile, in grado di tenere conto dell’emergenza climatica. Se è infatti vero che siamo di fronte a fenomeni già verificatisi in passato, occorre aggiungere che la loro intensità e la loro frequenza stanno variando in maniera troppo importante per essere trascurate.

Pur di fronte a questa evidenza, continuiamo a edificare in maniera cieca e troppo impattante, nonostante sappiamo bene di trovarci su un territorio caratterizzato da elevato rischio idrogeologico. La continua sottrazione di terreno è il più irreversibile tra i pur numerosi processi dannosi di origine antropica. Assorbire e riutilizzare le acque alluvionali, specie nelle zone più a rischio, aiuterebbe le città a evitare le gravi conseguenze delle inondazioni urbane e, nel farlo, garantirebbe numerosi altri benefici. La cittadinanza potrebbe contare su acqua pulita filtrata naturalmente, grazie all’azione delle infrastrutture verdi, mentre la flora – e una ritrovata fauna – nelle rinate aree verdi migliorerebbero la qualità della vita dei residenti.

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Mattia Mezzetti

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