Secondo la Commissione internazionale per la protezione delle Alpi la siccità che colpisce il nostro Paese va affrontata con una strategia di lungo periodo, basata sull’analisi delle riserve e l’elaborazione di modelli di utilizzo sostenibile. A partire dalla protezione delle falde.
La rappresentanza italiana della Commissione internazionale per la protezione delle Alpi (Cipra) è recentemente intervenuta sulla siccità che colpisce il Paese, dall’arco alpino alle valli, sottolineando la necessità di politiche di gestione della risorsa idrica e di adattamento. Ne parliamo con la presidente di Cipra Italia Vanda Bonardo.
Bonardo, qual è la situazione in questi giorni?
“La situazione purtroppo è quella che prevedevamo già un paio di mesi fa. Quest’anno c’è una combinazione terribile – quasi una tempesta perfetta – di clima molto mite, che adesso sta diventando caldissimo, e scarse precipitazioni. In molte zone non è piovuto per più di 100 giorni; in montagna c’è stata pochissima neve, che per di più si è sciolta velocemente per le temperature elevate. Senza neve sulle montagne, non abbiamo lo stoccaggio di acqua che poi viene rilasciata piano piano durante l’estate alimentando i fiumi. Sui ghiacciai del Friuli e del Gran Paradiso la copertura nevosa è scomparsa già più di un mese fa e possiamo supporre che tutta la neve che copriva i ghiacciai sia ora esaurita. La fusione del ghiaccio inizia quindi con maggior anticipo rispetto agli anni scorsi. I bilanci di massa sono in negativo, cioè i ghiacciai stanno arretrando sempre di più, ma negli anni passati si osservava ancora un po’ di neve sopra il ghiaccio perlomeno fino ad agosto. Il ghiacciaio ti dà il polso della situazione: si stanno riducendo a vista d’occhio e l’accelerazione di questo fenomeno è terribile”.
La situazione di quest’anno potrebbe diventare la norma, a causa del cambiamento climatico?
“La prima conseguenza del cambiamento climatico è un aumento di temperatura. L’altra conseguenza che si osserva sempre di più è l’estremizzazione di tutti i fenomeni naturali: per esempio le precipitazioni che chiamiamo bombe d’acqua, la siccità, il vento forte, tipo quello della tempesta Vaia, potrebbe anche cadere una quantità di neve enorme concentrata in determinate aree. L’anno scorso, per esempio, c’è stata tantissima neve che nessuno si attendeva. Su questa siccità bisognerà chiaramente fare un ragionamento più ampio, inserendola all’interno di una valutazione climatica, cioè su più anni. Ma da come si presenta, potrebbe essere un sintomo del cambiamento climatico, di estremizzazione appunto”.
Quali politiche e quali interventi occorrono per la gestione del rischio siccità?
“Ho parlato dei ghiacciai perché sono quelli che raccontano meglio la situazione; ma in montagna c’è anche il permafrost: il terreno perennemente ghiacciato che un tempo era al di sopra dei 3.000 metri e adesso si sta riducendo sempre di più. L’acqua è stoccata anche lì. Capire dove sono le riserve è importante: dobbiamo stare molto attenti a conservarle e curarle. Le falde vanno protette dall’inquinamento. È fondamentale un piano idrologico serio, che parta dall’analisi della quantità di acqua offerta. È uno snodo fondamentale per costruire dei modelli di utilizzo sostenibile. Che impongono riflessioni sull’agricoltura, perché è lì che viene utilizzata la maggior quantità di acqua, in media il 60-70%. Passare a un’agricoltura meno idro-esigente apre dei discorsi enormi, che prima o poi bisognerà avere il coraggio di fare. Grande attenzione va data anche all’uso dell’acqua potabile, soprattutto dove le falde si stanno riducendo. Poi, l’idroelettrico: è utilissimo, soprattutto ora che vogliamo uscire dalle fonti fossili, ma dobbiamo stare attenti a non usare più di quel che c’è. Già adesso i fiumi sono in sofferenza. In molti casi, soprattutto quelli piccoli, sono stati iper-sfruttati. L’attenzione deve aumentare ancora di più. In conseguenza della siccità, come già negli anni scorsi, avremo un calo notevole di produzione di energia idroelettrica e se si esagererà con i prelievi a uso idroelettrico, lo stress degli ecosistemi fluviali sarà incredibile. Serve una regia nazionale e un piano che tenga insieme tutto alla luce dei dati scientifici”.
Chi è responsabile del piano e chi deve intervenire?
“Parliamo di più di un ministero. Sicuramente il tutto dovrebbe essere in capo al Ministero della Transizione ecologica, perché ha il compito di tutelare le risorse idriche in modo da fare sì che non ci si ritrovi in situazioni di emergenza, né per gli esseri umani né per l’ambiente. Ma hanno un ruolo anche il Ministero delle Politiche agricole e forestali e a quello delle Infrastrutture”.
E a che punto siamo?
“Come al solito si vedono grandi immagini del Po in secca, l’autorità di bacino dice che la situazione è terribile, alcune Regioni dichiarano lo stato di calamità e la proposta che mi pare più gettonata è quella di costruire dei bacini artificiali per risolvere il problema”.
Chi chiede i bacini artificiali?
“Sicuramente Coldiretti e altre associazioni di agricoltori, l’Unione nazionale dei comuni, comunità ed enti montani (Uncem) e anche i Consorzi di bonifica. Poi, pure le amministrazioni pubbliche che recepiscono le istanze di queste lobby. La lobby degli agricoltori è molto potente e anche nel Pnrr emergono grandi istanze di richiesta di bacini artificiali”.
Come Cipra spiegate che i bacini di raccolta artificiali raramente rappresentano la soluzione; piuttosto occorre ricaricare le falde, ma come?
“Le crisi climatiche non sono facili da risolvere né da affrontare, però in parte si possono prevenire. Se non cementifichiamo troppo il territorio, l’acqua anziché scorrere velocemente a valle, confluire nei fiumi e andare nel mare, viene assorbita dal terreno e finisce nelle falde freatiche. Quando ci sono le alluvioni – perché sappiamo benissimo che a periodi di siccità se ne alternano altri in cui c’è troppa acqua – se invece di regimentare i fiumi trasformandoli in canali di cemento, li lasciamo più liberi, anche di esondare, i campi vengono allagati e l’acqua penetra nel terreno e va a rimpinguare le falde, superficiali e profonde. La situazione di una falda profonda varia su tempi molto lunghi e dipende da questa possibilità di immagazzinamento che avviene piano piano, nel tempo. In una situazione di grande siccità le falde profonde non ne risentono. Se noi, in momenti pesanti come questo, avessimo le falde a posto, non dico che risolveremmo il problema però avremmo meno ansie per l’acqua potabile e gli acquedotti. È giusto dire tratteniamo l’acqua il più possibile là dove cade, però c’è modo e modo: un conto è tenerla in grandi vasconi, un altro è permettere a vaste superfici del territorio di far sì che quest’acqua venga assorbita e vada stoccata in profondità. Visto che i ghiacciai non ci saranno più, bisognerà controbilanciare con la massima attenzione alle falde. Inoltre, anche un riuso delle acque reflue in molte situazioni può essere utilissimo, anziché convogliarle subito al mare”.
I rischi di una cattiva gestione o di una non gestione della risorsa idrica quali sono?
“Lo stato di calamità sarà sempre più frequente e i problemi cresceranno invece di ridursi. Piaccia o non piaccia, bisogna essere consapevoli che il clima cambia. Le azioni per ridurre i possibili danni, agli umani e agli ecosistemi sono, da un lato, la mitigazione, con tutte le politiche che impediscono un ulteriore aumento della temperatura e i suoi effetti estremi, dall’altro le politiche di adattamento. Abbiamo una Strategia nazionale di adattamento che però deve essere attuata. Siamo in ritardo. Siamo gli unici, a livello europeo, in questa situazione di mancata attuazione. E più si perde tempo più i danni aumenteranno”.