I sedimenti sono fondamentali per gli interventi di ripascimento delle coste e il ripristino delle foci fluviali finalizzati a contrastare erosione ed effetti del cambiamento climatico; ma essendo potenziali recettori di sostanze inquinanti, il loro utilizzo non sempre è possibile.
La risorsa sedimenti ha assunto negli ultimi anni un valore strategico per la difesa della costa dall’erosione e dagli effetti del cambiamento climatico, per il Mediterraneo in particolar modo. Rispetto a Stati Uniti e Nord Europa, infatti, il Mare Mediterraneo è caratterizzato da un elevatissimo sviluppo costiero, con difficoltà notevoli di rintracciare risorse sedimentarie utilizzabili per gli interventi di ripascimento delle coste. A questo si aggiunge l’impossibilità del loro utilizzo quando devono essere rimossi dagli ambiti portuali, lagunari e di foce fluviale a causa delle problematiche connesse alla loro qualità: i sedimenti da movimentare possono infatti presentare problemi di carattere ecotossicologico, incompatibili con la necessità di protezione degli ecosistemi acquatici dall’inquinamento.
Silvano Focardi, già professore di Ecologia presso l’Università di Siena e già presidente ICRAM, si occupa di valutazioni di impatto ambientale, recupero e bonifica di siti inquinati, effetti dei contaminanti persistenti sugli organismi. Gli abbiamo chiesto quali sono al momento attuale le opportunità di valorizzazione dei sedimenti in Italia e quali invece i vincoli da superare.
“La movimentazione dei sedimenti finalizzata al ripristino delle foci fluviali, al dragaggio portuale e al ripascimento delle coste è oggi regolata – per tutto il territorio ad esclusione dei siti di bonifica di interesse nazionale (SIN) o regionale (SIR) – dal D.M. 173/2016 Regolamento recante modalità e criteri tecnici per l’autorizzazione all’immersione in mare dei materiali di escavo dei fondali marini. Il D.M. 173/2016 abbandona il vecchio concetto del pericolo chimico su base tabellare e introduce la logica dell’approccio Weight of Evidence (WOE), che integra indagini di tipo chimico-ecotossicologico-biologico per valutare lo stato di pericolosità di un sistema complesso come il comparto dei sedimenti. Sono due le principali linee di evidenza (LOE), chimica ed ecotossicologica, che consentono di formulare una valutazione oggettiva di tossicità, basata su un indice sintetico di pericolo ecotossicologico (Hazard Quotient, HQ). Se le evidenze sperimentali non mostrano effetto, il sedimento ha una classificazione di rischio assente e può essere utilizzato.
L’introduzione nella legislazione vigente di criteri di valutazione della qualità dei sedimenti basati su approcci scientificamente validi, che tengono conto delle specificità presenti nel territorio, è un elemento fondamentale per facilitare la salvaguardia dell’ambiente e della salute dell’uomo”.
Quella di Venezia è la laguna più grande d’Italia e la gestione dei sedimenti ne determina l’equilibrio e la sopravvivenza. Lei ha fatto parte della Commissione che ha lavorato alla revisione della normativa che ne disciplina l’utilizzo; come vengono gestiti i sedimenti in questo particolarissimo ecosistema?
“La Laguna di Venezia costituisce un ecosistema unico, dove nel tempo si è creato un rapporto di interdipendenza fra ambiente naturale e ambiente costruito, un tipico ecosistema umano che necessita di costante governo attraverso opportuni strumenti normativi e tecnici che garantiscano la qualità ambientale insieme alla sua funzionalità. Il tema della gestione dei sedimenti della laguna, sollevato alla fine degli anni ‘80, fu oggetto di una prima regolamentazione nell’aprile del 1993 con la sottoscrizione del cosiddetto Protocollo Fanghi (sottoscritto tra Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Comune di Venezia, Comune di Chioggia, Provincia di Venezia, Regione Veneto e l’allora Magistrato alle Acque di Venezia), che venne adottato per un anno in via sperimentale, senza essere poi formalmente rinnovato né prorogato.
Il Protocollo classificava, secondo criteri esclusivamente chimici, i sedimenti provenienti dai dragaggi in quattro classi (A, B, C ed oltre C), definendo specifici limiti al riutilizzo per interventi di recupero e ricostruzione morfologica sulla base del rispetto di valori tabellari di concentrazione di alcune sostanze. Fino all’approvazione del nuovo Decreto, questo Protocollo ha costituito l’unico riferimento per la gestione in condizioni di sicurezza ambientale dei sedimenti “ex situ” e, talvolta, anche per valutazione della qualità dei sedimenti “in situ”. Gli studi sui sedimenti lagunari evidenziavano come il 97% fosse collocabile in classe B: una qualificazione che, in base al Protocollo fanghi, ne impediva il riutilizzo per opere di ripristino morfologico, che comportano la possibilità di libero contatto del sedimento con le acque lagunari. Di conseguenza si rendeva necessario l’obbligo di reperire all’esterno il materiale idoneo (ad esempio dalle cave a mare, che sono risorse non rinnovabili), ma soprattutto risultava impossibile realizzare il Piano Morfologico per la risistemazione dei canali, delle velme e delle barene, per il quale occorre movimentare alcuni milioni di metri cubi di sedimenti.
Per superare questi problemi, il Magistrato alle Acque (poi Provveditorato alle Opere Pubbliche) nominò una Commissione – di cui ho fatto parte – per rivedere il Protocollo fanghi, in collaborazione con ISPRA, e finalmente dopo alcuni anni è stato approvato il Decreto 22 maggio 2023 “Regolamento recante disposizioni per il rilascio delle autorizzazioni per la movimentazione, in aree di mare ubicate all’interno del contermine lagunare di Venezia, dei sedimenti risultanti dall’escavo dei fondali del contermine lagunare”. La principale novità è che il Decreto prevede la caratterizzazione e la classificazione dei sedimenti secondo una valutazione integrata dei dati chimici ed ecotossicologici volta ad un loro riutilizzo nella Laguna ambientalmente compatibile e in coerenza con le direttive europee di settore, in considerazione del principio del non peggioramento delle condizioni ambientali dell’area di destinazione, delle aree circostanti e dei corpi idrici interessati. E di fatto, in linea con le novità introdotte dal D.M. 173/2016, aprendo la possibilità alla movimentazione e all’uso dei sedimenti in molte altre aree del nostro Paese”.
Il nuovo schema di regolamento elaborato da Ispra sulla gestione delle terre e rocce da scavo riguarda anche i sedimenti. Cosa prevede e con quali benefici?
“Lo schema di Regolamento recante “Disposizioni per la semplificazione della disciplina inerente la gestione delle terre e rocce da scavo” è finalizzato a facilitare l’utilizzo nel sito di produzione delle terre e rocce da scavo qualificate come sottoprodotti e escluse dalla disciplina dei rifiuti. Viene anche semplificata la disciplina del deposito temporaneo delle terre e rocce da scavo qualificate come rifiuti, nei siti oggetto di bonifica. Il campo di applicazione del Decreto è stato esteso anche ai sedimenti, rendendo così possibile il loro utilizzo come sottoprodotti nell’entroterra, ferma restando la disciplina dell’articolo 109 del Decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152 per i conferimenti in mare o in ambiti ad esso contigui, quali spiagge, lagune, stagni salmastri e terrapieni costieri. Di rilievo l’introduzione di semplificazione dei procedimenti amministrativi per la loro gestione. Il regolamento consentirà di gestire le terre e rocce da scavo sottraendole al regime di gestione dei rifiuti ed agevolando, in tal modo, il raggiungimento degli obiettivi di economia circolare”.