Chiudi
Cerca nel sito:

Rapporto Rifiuti Speciali 2024 di Ispra

Rapporto Rifiuti Speciali
Condividi l'articolo

Secondo il Rapporto Rifiuti Speciali 2024, il settore delle costruzioni rimane il principale produttore di rifiuti, seguito da quello del trattamento dei rifiuti e bonifiche e dalla manifattura. Il leggero calo del 2% è dovuto più al contesto di crisi internazionale che a misure sistemiche in un’ottica di prevenzione.

È on line il nuovo Rapporto rifiuti speciali dell’Ispra, testo fondamentale per chi, a vario titolo, si occupa degli scarti prodotti dalle attività non domestiche, ossia di quelli che arrivano direttamente dal mondo delle imprese. Un lavoro utile per comprendere l’intero mondo dei rifiuti, considerato che questa frazione rappresenta circa l’85% in peso del totale prodotto ogni anno, mentre l’altro 15% rientra nell’ambito delle attività domestiche, ossia di quanto prodotto nelle nostre abitazioni.

Delle 550 pagine dense di statistiche e analisi quali-quantitative, si prendono in considerazione in questo articolo, per ovvie ragioni di sintesi, due aspetti: il primo, una sommaria panoramica sui dati, il secondo, una breve riflessione sulla metodologia adottata e su qualche incongruenza.

I dati del Rapporto rifiuti speciali 2024

Nel 2022, ultimo aggiornamento disponibile sulla base dei dati raccolti, sono stati prodotti nel nostro paese 161,4 milioni di tonnellate (m/t) di rifiuti speciali (quasi il 94% classificati come non pericolosi), registrando un leggero calo del 2 % (pari a circa 3,4 m/t). Una flessione, al pari di quanto avvenuto per i rifiuti urbani – spiegano i curatori del Rapporto – dovuta “all’inizio del conflitto in Ucraina e dalla crisi energetica globale i cui effetti combinati hanno inevitabilmente avuto ripercussioni sul sistema economico nazionale che ancora stava riprendendosi dalla crisi pandemica del 2020”.

Una panoramica sui dati

Come noto, il maggior contributo in peso alla produzione complessiva è dato dal settore delle costruzioni e demolizioni (Ateco da 41 a 43), con una percentuale pari al 50% del totale, corrispondente a quasi 80,8 m/t (percentuale che sale al 53% se si prende in considerazione solo i rifiuti non pericolosi).

L’altra fetta importante deriva dalle attività di trattamento dei rifiuti e di risanamento (categorie Ateco 38 e 39), contribuendo per il 22,8% (36,8 m/t), ricordando a tutti che anche le attività di corretta gestione dei rifiuti, destinate principalmente alle pratiche circolari di riciclo e recupero comportano a loro volta la produzione di scarti, in ossequio alle leggi della termodinamica: nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma, in scarti in questo caso.

La terza fetta importante della torta è data dalle attività manifatturiere prese nel loro complesso (Ateco da 10 a 33), che coprono un altro 17,5%, più o meno 28,3 m/t. Seguono le altre attività economiche contribuiscono, complessivamente, alla produzione di rifiuti speciali con una percentuale pari al 9,7% (quasi 15,6 m/t).

Focus sul settore della manifattura

Soffermandosi al settore della manifattura, il comparto della metallurgia (Ateco 24) copre il 25,5%, pari a circa 7,2 m/t, mentre la fabbricazione di prodotti in metallo, esclusi macchinari e attrezzature (Ateco 25), produce il 13,6% del totale (3,8 m/t). Messi insieme, questi due settori hanno generato quasi 11,1 m/t di rifiuti speciali non pericolosi e pericolosi. I settori della fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio, dell’industria chimica e farmaceutica e della fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche (Ateco da 19 a 22), hanno prodotto 3,9 m/t di rifiuti (13,9% del totale). Infine, l’industria alimentare e delle bevande (Ateco 10 e 11) concorre per il 10,7% al totale dei rifiuti speciali prodotti dal comparto manifatturiero, corrispondente in termini quantitativi a poco più di 3 m/t.

La suddivisione geografica

A livello di macroarea geografica, al Nord si sono prodotti i maggiori volumi, circa 92,7 milioni di tonnellate (pari, in termini percentuali, al 57,4% del dato complessivo nazionale) – e tra le Regioni si distingue in particolare la Lombardia, che da solo copre più del 38% del totale dei rifiuti speciali generati dal Nord (per circa 35,3 m/t) –, naturalmente in linea con le dimensioni del tessuto industriale. La produzione del Centro si attesta a 28,1 milioni di tonnellate (17,4% del totale nazionale), mentre quella del Sud a 40,6 milioni di tonnellate (25,2%).

Rapporto Rifiuti Speciali: la gestione

Andando alla loro gestione, secondo il rapporto più del 72% è andato a recupero di materia, più del 10% messo in riserva, il 5% smaltito in discarica, insieme a un altro 10% sottoposto ad altre operazioni di smaltimento (trattamenti chimico-fisici senza recupero), mentre poco più dell’1% è andato tra incenerimento e coincenerimento.

Alcune considerazioni metodologiche

Andando al secondo elemento di riflessione metodologico accennato all’inizio, è bene precisare che solo la metà circa dei dati riguarda effettivamente i quantitativi prodotti e certificati dalle imprese, trovando fondamento nei MUD (Modelli Unico di Dichiarazione ambientale) presentati obbligatoriamente dalle aziende che superano i 10 dipendenti. L’altra metà dei dati derivano, invece, da semplici stime effettuate da Ispra mediante “l’applicazione di specifiche metodologie”, riguardando aziende con meno di 10 dipendenti, che quindi non hanno alcun obbligo di presentare i MUD. Stima che, per esempio, nel caso dell’industria alimentare e delle bevande riguarda ben il 76,3% dei dati del settore.

Una delle anomalie principali del calcolo dei dati deriva dal fatto che i quantitativi dei rifiuti gestiti (176,6 m/t) ufficialmente risultano essere di molto superiori ai rifiuti prodotti (161,4 m/t), contraddizione giustificata, evidentemente, da duplicazioni e aporie sia dal lato della produzione che della gestione, come quella di conteggiare come gestiti quantitativi semplicemente stoccati (in attesa di effettivo trattamento) in qualche impianto (circa 20 m/t). Contraddizione che getta, quindi, una luce di eccessiva aleatorietà sull’intero sistema di censimento.

Quanti rifiuti finiscono in attività di riciclo?

Da considerare pure che le alte percentuali sul recupero, che farebbero subito pensare a una buona notizia, attestano sostanzialmente solo un dato formale, in quanto nulla dicono su quanta parte di questi finiscono effettivamente ad attività riciclo. Uno dei casi più eclatanti è sicuramente quello dei rifiuti da costruzione e demolizione (C&D), che lo stesso Rapporto stima in un faraonico 80%, quando la realtà è tutt’altra, visto che la gran parte di questi rifiuti trattati rimane nei magazzini a causa di uno scarso impiego nei cantieri perché preferiti ai materiali vergini (più economici e di facile accesso e, soprattutto, ancora preferiti ai materiali riciclati, di fatto, dalle stazioni appaltanti). Ma lo stesso si potrebbe fare per le altre filiere, come quella degli pneumatici fuori uso (PFU), rifiuti tessili, elettronici (Raee), e così via.

Infine, rimangono lontanissimi i target Ue di riduzione della produzione dei rifiuti rispetto al PIL (in gergo tecnico definito disaccoppiamento), che ipotizzano una riduzione del 5% per i rifiuti speciali non pericolosi per unità di PIL e del 10% per i rifiuti pericolosi. In effetti, nel biennio 2021-2022, si rileva, al contrario, una variazione percentuale (della produzione di rifiuti speciali non pericolosi per unità di PIL) in crescita rispetto al 2010, anche se nel 2022 con valori più contenuti (+22%) rispetto al 2021(+29%). A certificare, anche per questa via, che continuiamo ad andare in direzione ostinatamente contraria, nonostante le tante fanfare sull’economia circolare italiana.

Ultime Notizie

Cerca nel sito