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L’estrazione delle materie prime necessarie alimenta la crisi climatica

estrazione delle materie prime necessarie alimenta la crisi climatica
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In uno studio del World Resource Institute, il paradosso di un approccio puramente di estrazione delle materie prime alla transizione energetica: “Dal 2001 al 2020, il mondo ha perso quasi 1,4 milioni di ettari di alberi a causa di attività minerarie”.  Inibendo l’assorbimento di tanta CO2 quanta ne emette in un anno la Finlandia.

La transizione verso un sistema energetico più sostenibile, resa necessaria dell’emergenza climatica, sta alimentando la crescente domanda di minerali critici, materiali essenziali per tecnologie come le batterie per veicoli elettrici, turbine eoliche e pannelli solari. “La transizione verso l’energia pulita – afferma uno studio dell’Agenzie internazionale per l’energia (IEA) – sta accelerando rapidamente, e i minerali critici come il litio, il cobalto, il rame e le terre rare giocano un ruolo essenziale in questa transizione”.

La domanda di questi materiali è destinata a moltiplicarsi nei prossimi decenni, man mano che i governi di tutto il mondo accelerano verso politiche di decarbonizzazione per provare a contenere il collasso climatico, come lo ha definito il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres. “La domanda di minerali critici è destinata a crescere fino a sei volte entro il 2040”, avverte l’Agenzia. E non sarà una crescita indolore, perché “l’aumento della domanda di questi materiali presenta sfide significative sia in termini di approvvigionamento che di impatto ambientale”. L’economia circolare, infatti, fatica ad attecchire in un settore complesso come quello delle tecnologie green, e il riciclo di preziosi minerali come litio e cobalto è ancora a livelli risibili (il tasso di riciclaggio globale del litio proveniente dalle batterie, ad esempio, è stimato dall’American Chemical Society attorno al 5%).

La ricerca del World Resource Institute

A darci la misura degli impatti presenti e futuri dell’industria mineraria è una ricerca del World Resource Institute (WRI) che ha messo sotto osservazione la deforestazione indotta dalle estrazioni: “Tra il 2001 e il 2020, l’attività mineraria ha comportato la perdita di 1,4 milioni di ettari di foresta, aggravando la crisi climatica, la perdita di biodiversità e la vulnerabilità delle comunità indigene”. L’abbattimento di questi alberi, secondo i ricercatori e le ricercatrici del WRI, ha inibito l’assorbimento dei “36 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente (CO2e) all’anno, una quantità simile alle emissioni di combustibili fossili della Finlandia nel 2022”.

Quello che il WRI descrive è un drammatico effetto paradosso per cui la ricerca di materie prime per la decarbonizzazione non fa che aumentare la crisi climatica che la stessa decarbonizzazione vorrebbe fermare. La consapevolezza dei rischi dell’approvvigionamento delle materie prime necessarie per la transizione non deve perà scoraggiarci o dissuaderci dal perseguire questo obiettivo. Piuttosto deve convincerci dei danni di un approccio puramente lineare ed estrattivista – prendo dalla natura, uso e getto via – e spingerci verso un uso “circolare” in cui le materie e i beni restano in circolo il più a lungo possibile.

Persa una superficie di foreste estesa come il Montenegro

Il WRI ha analizzato i dati sulla perdita di copertura arborea elaborati dell’Università del Maryland e li ha combinati con studi sull’estensione globale delle miniere. “Dal 2001 al 2020, il mondo ha perso quasi 1,4 milioni di ettari di alberi a causa di attività minerarie e affini”, spiega il report: un’area grande più o meno come il Montenegro.

Secondo uno studio del WWF citato nel rapporto, l’estrazione di oro e carbone ha provocato oltre il 71% di tutta la deforestazione legata alle miniere. L’attuale boom dell’oro è iniziato poco dopo la crisi finanziaria globale del 2008, quando il minerale è tornato ad essere un bene rifugio e il suo prezzo è decollato. Quanto al carbone, anche se l’uso è in calo, domina ancora il mix energetico globale, generando circa un terzo dell’elettricità (IEA).

Le principali vittime dell’estrazione delle materie prime

Le principali vittime delle miniere sono le foreste pluviali: “Degli 1,4 milioni di ettari di perdita di copertura arborea legata all’attività estrattiva 450.000 ettari si trovavano in foreste pluviali primarie tropicali, 150.000 ettari in aree protette e 260.000 ettari in terre di popolazioni indigene e comunità locali”.

Questa perdita di foreste è piuttosto concentrata geograficamente: l’87% di copertura arborea sacrificata negli ultimi due decenni all’estrazione mineraria si è verificata in soli 11 Paesi: Indonesia, Brasile, Russia, Stati Uniti, Canada, Perù, Ghana, Suriname, Myanmar, Australia e Guyana. “L’Indonesia ha la perdita più alta (370.000 ettari), seguita dal Brasile (170.000 ettari), per lo più dovuta rispettivamente all’estrazione di carbone e di oro su piccola scala”. Inutile ricordare che questi due Paesi ospitano vaste aree di foreste pluviali primarie tropicali.

Ma la deforestazione, soprattutto per la produzione di carbone, non è un problema esclusivamente tropicale. Uno studio del WWF ha dimostrato che il 20% della perdita di copertura arborea globale legata al carbone è avvenuta negli Stati Uniti, a discapito dei boschi sui monti Appalachi in Kentucky, West Virginia, Virginia e Tennessee. “L’impatto ecologico è a lungo termine: Per riportare queste aree alle foreste endemiche di abete rosso maturo del passato possono essere necessari almeno 50 anni”.

A pagare sono anche le popolazioni indigene e gli animali

Foreste, crisi climatica, ma anche popolazioni indigene e biodiversità. Secondo un altro rapporto del WRI, a partire dal 2020 le concessioni minerarie e le attività estrattive illegali “coprivano più del 20% delle terre indigene in Amazzonia, mettendo in pericolo centinaia di comunità ed ecosistemi critici in un’area grande quanto il Marocco”. Effetti globali, dunque, si sommano ad effetti locali che interessano chi le aree disboscate le abita: indigeni e specie animali. Paesi come Brasile, Indonesia e Congo, oggetto dell’espansione mineraria, ospitano infatti le foreste più ricche di biodiversità del pianeta. “Nelle aree tropicali – sottolinea il WRI – l’attività mineraria non solo riduce la copertura forestale, ma ha anche impatti negativi sulle riserve naturali protette”.

L’appello ai governi e alle imprese per l’estrazione delle materie prime

Per mitigare l’impatto dell’industria mineraria, afferma il report, sono necessarie normative più stringenti e una maggiore trasparenza nelle operazioni estrattive. “Alcuni passi avanti sono stati fatti, con aziende che si impegnano in pratiche più sostenibili, come il recupero del suolo e il rimboschimento. Tuttavia, queste misure non sono sufficienti”. Secondo il World Resource Institute è urgente che i governi, le industrie e le organizzazioni internazionali collaborino per creare una regolamentazione globale più rigida, per responsabilizzare le imprese, garantendo che le operazioni minerarie rispettino standard ambientali e sociali. Un ruolo importante, ovviamente, dovrebbero averlo anche le tecnologie innovative nelle pratiche minerarie.

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