In Sardegna la corsa all’oro ha fruttato poco e provocato l’inquinamento di 530 ettari di terreni. Oggi la bonifica avviene con l’impiego di tecnologie che permettono di recuperare le sostanze chimiche prodotte dal trattamento delle acque.
Come in America, anche in Sardegna i cercatori d’oro sono arrivati da altre parti del mondo, soprattutto Australia e Canada. Non più lavoratori disposti a tutto per fare fortuna come alla fine dell’Ottocento, ma imprenditori diventati soci della Progemisa Spa, società controllata della Regione Sardegna che ha partecipato all’avventura della Sardinia Gold Mining, joint venture pubblico-privata nata nel 1997 per lo sfruttamento della miniera di Furtei, vicino Cagliari. I risultati sul fronte produttivo sono stati modesti: 5 tonnellate d’oro, 6 d’argento e 20mila di rame con un’attività che è terminata nel 2008, quando la società ha dichiarato fallimento. In compenso l’estrazione dei metalli – presenti in disseminazioni microscopiche e non in filoni – e realizzata attraverso solventi chimici, ha avuto un impatto ambientale importante: 530 ettari di terreni contaminati da piombo, zinco, cadmio, ferro, manganese e alluminio e una montagna abbassata di 40 metri dalle lavorazioni a cielo aperto. Gli interventi di bonifica, stimati in 65mila euro, con il fallimento della Sardinia Gold Mining, sono a carico della Regione.
Una bonifica innovativa
Ci sono voluti 9 anni per far partire la bonifica dell’area che è divisa in due lotti: il primo è quasi completamente bonificato, mentre la fine lavori del secondo lotto è prevista per il 2025. Per decontaminare le acque acide del cosiddetto “invaso dei veleni”, provenienti dai cantieri minerari, è stato realizzato un impianto in grado di trattare 500 metri cubi al giorno di acque di miniera contaminate, che produce acqua depurata e 120mila litri al giorno di cosiddetta salamoia, un liquido ricco di solfuri e solfati che dovrebbe essere portato a smaltimento. Con costi ambientali ed economici non indifferenti. L’ostacolo dello smaltimento di questa massa imponente di scarti è stato superato grazie alla tecnologia di Tecnocos, società titolare di un brevetto 100% italiano. “Una soluzione altamente innovativa – spiega Ilaria Desantis geologa Igea, la società della Regione titolare della concessione mineraria – che utilizza un sistema a celle elettrolitiche, basato su “camere” separate da membrane semipermeabili, in grado di far transitare da una parte all’altra solo determinati composti, gli ioni (entità molecolari dotati di carica elettrica ndr.) presenti nell’acqua”. La salamoia trattata nell’impianto produce tre flussi di acqua in uscita: dolce e depurata di tutti i sali; acida (acqua e acido cloridrico) e basica (acqua e soda). La prima viene restituita all’ambiente mentre le acque acide e basiche sono riutilizzate nel processo di trattamento stesso come reagenti. In questo modo i 120 metri cubi di salamoia iniziali si riducono in pochi metri cubi da smaltire. Un significativo risparmio economico e ambientale. “Con questa tecnologia – sottolinea Piero Gasparin di Tecnocos – si ha una forte riduzione dei materiali da smaltire e un risparmio economico dato dal riutilizzo delle sostanze chimiche recuperate nel processo”. Un vero esempio di economia circolare.