Elisa Palazzi insegna Fisica del clima all’Università di Torino. Oltre ad essere coinvolta in numerose attività di ricerca, partecipa a laboratori e incontri nelle scuole. E ci ha raccontato il suo lavoro sul territorio, con i ragazzi.
Elisa Palazzi insegna Fisica del clima all’Università di Torino. Lo studio dei cambiamenti climatici nelle regioni di montagna, per capire quali siano i fattori che influenzano lo stato dei ghiacciai e la disponibilità futura di risorse idriche, è tra i temi delle sue ricerche. Si è occupata in particolare delle Alpi, della catena himalayana e dell’altopiano tibetano ed è coinvolta in diverse attività internazionali come la European Climate Research Alliance (ECRA), la Mountain Research Initiative (MRI) e il Global Network for Observations and Information in Mountain Environments (GEO-Gnome). Partecipa anche a numerosi incontri di divulgazione scientifica e laboratori su clima, energia e ambiente. Tra questi, una serie di incontri organizzati nelle scuole di Pistoia, nell’ambito del concorso sui temi della scienza di Fondazione Caript. Le abbiamo chiesto di raccontare questa esperienza di lavoro sul territorio.
Elisa Palazzi, come si parla di surriscaldamento globale ai ragazzi?
“Gli adolescenti che incontro, nella maggior parte dei casi, hanno già una certa consapevolezza che il problema esiste e che il loro futuro potrebbe essere un po’ incerto. Esprimono spesso un mix tra paura e rabbia. Ma questi sentimenti, che potrebbero essere bloccanti rispetto alla voglia di fare qualcosa, nel loro caso non lo sono. Anzi, sono leve di attivismo. Magari chiedono che cosa possono fare. Sono un pubblico preparato e stimolante, vogliono approfondire, le loro domande non sono mai banali, e combinano pragmatismo e immaginazione, in un’idea di futuro che può essere diverso”.
Quanto sono consapevoli i ragazzi della crisi climatica?
“Secondo me, hanno molta consapevolezza. Va detto che mi riferisco alle persone che incontro e che sono in molti casi ragazze e ragazzi che, per esempio, già appartengono a movimenti di attivismo, come i Fridays for future. Hanno cercato di fare proprie le conoscenze e chiedono a ricercatori e scienziati quello che non capiscono, perché sono cose davvero difficili e complesse. Trovo, quindi, che abbiano una consapevolezza molto profonda, perché riconoscono i propri limiti e si informano. Spesso hanno anche una modalità molto efficace di comunicare. Poi ovviamente ci sono delle differenze”.
Nelle scuole il pubblico degli incontri sul cambiamento climatico è più vasto..
“Sì, molto più variegato. A Pistoia sono stata in diverse classi di scuole primarie e secondarie di primo grado, elementari e medie come si diceva una volta, dove prima del mio arrivo era stato fatto un percorso di preparazione con gli insegnanti. È quello che serve: un percorso strutturato e continuativo in classe, magari anche trasversale tra le discipline, perché il clima e il cambiamento consentono questa intersezionalità. Poi va l’esperto che aiuta a unire un po’ di puntini che sono rimasti sparpagliati. Si dovrebbe proprio lavorare insieme, ricercatori, scienziati e mondo della scuola. Per me è uno stimolo enorme, anche per portare avanti le mie ricerche”.
Le buone pratiche individuali per contrastare il surriscaldamento globale hanno senso, a fronte delle scarse misure di riduzione delle emissioni adottate da Governi e grandi industrie?
“Diciamo che esistono due dimensioni: quella individuale e quella delle grandi decisioni politiche. Ma non sono poi così disgiunte, perché quando gli individui diventano collettività possono fare una grande pressione sulla politica, se sono informati e hanno a cuore qualcosa. Comunque, le buone pratiche individuali vanno sempre bene. Il cambiamento climatico non ha una soluzione unica. E il pensare che a livello politico si stia facendo poco o niente non può essere una scusa per vivere una vita all’insegna dello spreco e della non sostenibilità, che si ritorcono anche contro il nostro benessere personale e la nostra salute. Le nostre azioni in realtà un beneficio lo portano comunque. È chiaro che se non sono accompagnate da una volontà politica di cambiamento importante in alcuni settori, come quello della produzione di energia, non bastano. Ma non è vero che non servono”.
Il 2022 è stato in Italia un anno caldissimo e siccitoso, che cosa ci riserva il futuro prossimo?
“Dipende. Il futuro da un punto di vista climatico sarà fortemente condizionato dalle emissioni di gas serra, che sono il fattore antropico più impattante in questo momento. È per questo che si ipotizzano diversi scenari di emissioni dei gas a effetto serra. Ma il clima non risponde immediatamente al cambiamento delle nostre abitudini, quindi lo scenario dei prossimi dieci anni sarà condizionato dalle emissioni del passato. Di qui a metà secolo, la temperatura media del pianeta aumenterà, qualsiasi scenario si assuma, sia che si taglino molto le emissioni sia che si continuino a produrre ai livelli attuali. Successivamente, invece, potranno vedersi risposte climatiche diverse, a seconda dello scenario effettivamente intrapreso. Possiamo prevedere la statistica degli eventi, non il singolo accadimento, quello semmai lo fa la previsione meteorologica, non quella climatica”.
Sulle nostre montagne è nevicato poco. È reale il rischio che su Alpi e Appennini sparisca la neve come siamo abituati a vederla?
“Osserviamo da alcuni anni una maggiore probabilità che, anche ad alte quote, la precipitazione si manifesti più in forma liquida che solida, e che le temperature estive siano così alte da far fondere la neve che è caduta d’inverno. Una nevicata ci può sempre essere, come vediamo ogni tanto, ma è altamente probabile che l’estensione, la durata e la permanenza del manto nevoso tendano a diminuire, perché siano in un regime di alto riscaldamento”.
Con quali conseguenze, in particolare su biodiversità e risorsa idrica?
“La questione della risorsa idrica forse è la cosa che più ci spaventa, perché dell’acqua abbiamo bisogno. L’anno scorso, così caldo e secco, ha segnato un punto di svolta: la nostra esperienza empirica ha combaciato con i dati della scienza. Forse alcune persone si sono svegliate e hanno capito che cosa potrebbe succedere. Se non c’è uno stock di neve che si accumula d’inverno e poi fonde d’estate, tale da garantirci l’acqua per irrigare, da bere o per la produzione di energia, è ovvio che può essere un problema. Se poi, col tempo, viene meno anche l’acqua stoccata nei ghiacciai significa la diminuzione della riserva a lungo termine. Gli ecosistemi montani non reagiscono bene alla mancanza del manto nevoso, perché la neve depositata sui suoli durante l’inverno li protegge, li isola. Sotto, il suolo si mantiene a temperature più alte rispetto a quelle dell’aria, e piante e animali riescono a sopravvivere alle gelide temperature dell’atmosfera invernale. È importante non solo per lo svolgersi di tanti processi fondamentali nel suolo stesso, ma proprio per la vita. Certamente la biodiversità risente fortemente delle variazioni nel manto nevoso influenzate da quelle così importanti nella temperatura”.