Quante volte abbiamo sentito parlare di end of waste? Numerose, sicuramente. L’espressione è molto utilizzata, talvolta persino abusata, e tutti abbiamo un’idea di che cosa significhi, soprattutto se mastichiamo la lingua inglese. Questo termine si può tradurre in italiano con cessazione della qualifica di rifiuto. Si riferisce dunque a un processo di recupero eseguito su uno scarto, al termine del quale esso perde la denominazione di rifiuto per acquisire quella di prodotto nuovamente utilizzabile.
Con end of waste non si intende il risultato finale, bensì quel processo precedente che, concretamente, permette al rifiuto di tornare a svolgere un ruolo utile come prodotto. In sostanza, si rende nuovamente attivo un oggetto che sarebbe altrimenti passivo e destinato a essere smaltito, magari in maniera inquinante, nell’ambiente.
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La nascita del concetto di end of waste
Il concetto di end of waste si deve all’Unione Europea. La direttiva 2006/12/CE si occupa di livellare il terreno per una revisione integrale della normativa comunitaria sui rifiuti. Il suo decreto attuativo è stato inserito nella direttiva quadro di Bruxelles in materia di rifiuti (direttiva 2008/98/CE, datata 19 novembre 2008).
Bruxelles elenca in questi due testi una scala di priorità relativa alle modalità di gestione dei rifiuti. In pole position troviamo la prevenzione. È infatti prioritario produrre quanti meno scarti possibile. Immediatamente di seguito, è stata posta la preparazione al riutilizzo. Se dunque non si riesca a fare a meno di creare il rifiuto, bisogna accertarsi che esso sia riciclabile. La cessazione della qualifica di rifiuto si inserisce in queste prospettive. Essa non è soltanto allineata con l’obiettivo di prevenzione e riutilizzo, bensì anche con il processo di recupero che permette al rifiuto di acquisire nuovamente lo status di prodotto.
La direttiva quadro specifica anche quando uno scarto smetta di essere un rifiuto e torni a potersi definire prodotto. La UE ha messo nero su bianco alcune condizioni perché questa modifica lessicale, per così dire, possa avvenire.
Da scarto a prodotto
Bruxelles ha posto 4 condizioni cardine affinché si possa parlare di prodotto, piuttosto che di scarto. Si tratta delle seguenti:
- un oggetto utilizzato comunemente per scopi specifici e definiti, non è un rifiuto. Tutto ciò che sia applicabile in ambiti noti e atto a svolgere funzioni conosciute, nonché piuttosto diffuso e utilizzato nella quotidianità, è un prodotto, non uno scarto.
- Qualora esista un mercato specifico per il determinato oggetto o una domanda per la sostanza, sarà difficile che si verifichi un abbandono. Anche in questo caso, non ci troviamo in presenza di un rifiuto.
- Se un oggetto può garantire le prestazioni richieste in condizioni di utilizzo, o consumo, concrete e rispetta le normative e gli standard esistenti applicabili, è un prodotto. Lo si può vendere e utilizzare.
- L’oggetto può essere impiegato e utilizzato a lungo, in condizioni di sicurezza e in assenza di impatti nocivi sulla salute umana e l’ambiente.
Questa contenuta regolamentazione segue un pronunciamento della Commissione Europea risalente al 2007. In esso si specifica:
“il materiale che risulta avere un’utilità, cesserà di essere considerato rifiuto non appena sarà pronto ad essere riutilizzato come prodotto recuperato. […] L’esistenza di contratti a lungo termine tra il detentore del materiale e gli utilizzatori successivi può indicare che il materiale oggetto del contratto sarà utilizzato e che vi è dunque certezza del riutilizzo. Il fatto che un fabbricante possa vendere un determinato materiale, ricavandone un profitto, indica una maggiore probabilità che tale materiale venga riutilizzato.”
Se leggiamo bene tra le righe e analizziamo con attenzione le condizioni, ci rendiamo conto che è perfettamente lecita l’operazione di controllo dei rifiuti, anche prima dell’avvio al riciclo. Se un oggetto considerato scarto soddisfa i criteri della Commissione, in realtà esso è, a tutti gli effetti, ancora un prodotto.
L’idea end of waste e i suoi confini
Il concetto di end of waste ha acquisito ampia rilevanza all’interno della regolamentazione europea. Di fatto, esso ha sostituito la legislazione precedente, quella che parlava di materie prime secondarie. Si tratta di una definizione nebulosa e, dunque, inefficace. Sostanzialmente, se il materiale poteva essere riutilizzato era possibile parlare di prodotto, altrimenti si era in presenza di un rifiuto e lo si poteva gestire come tale, smaltendolo o inviandolo al riciclo. Questa terminologia, piuttosto arcaica e poco pratica – sebbene non scomparsa – è stata oggi di fatto aggiornata, ma diciamo pure sostituita, dalla normativa end of waste.
Per tal motivo, nella trattazione preliminare del rifiuto, la UE impiega oggi sostanzialmente due sole categorie. Ciò che è rifiuto va considerato scarto, ciò che non lo è più, perché recuperato, è invece un prodotto. Riveste dunque straordinaria importanza il processo di recupero. Perché lo scarto possa tornare a rivestire un ruolo attivo occorre portare a termine una sua trasformazione, o riconversione. Solo così esso tornerà ad avere un ruolo attivo e si parlerà di oggetto utile. Non è necessario produrre da capo un nuovo prodotto, impiegando dal principio le risorse e i materiali necessari. Si può scommettere sul recupero e la rivalutazione di oggetti che qualcuno abbia precocemente gettato via.
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