L’inquinamento causato dagli allevamenti intensivi rappresenta un rischio molto elevato per terra, aria e acqua. Nonostante si pensi a ben altro quando si tira in ballo l’inquinamento atmosferico, in realtà quello prodotto da questi stabilimenti è davvero rilevante. Basti pensare che le emissioni climalteranti derivate dai combustibili fossili sono più tollerabili, su scala mondiale. Ogni allevamento intensivo è infatti parte integrante della biosfera che lo circonda e le sue emissioni la possono contaminare nella sua interezza.
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Quanto inquina un allevamento intensivo
Le attività umane e antropiche, senza ombra di dubbio, sono quelle che mettono maggiormente a rischio il pianeta e la vita sulla Terra. Il riscaldamento globale e l’inquinamento atmosferico, causa di una serie di fenomeni che minacciano il pianeta e l’esistenza di chi vi abiti, ai quali stiamo già assistendo, si devono principalmente all’incuranza dell’uomo. Il clima, in particolare, soffre l’immissione nell’atmosfera di enormi quantità di gas letali per questo pianeta, perché capaci di alterarne il clima.
Questi famigerati gas, detti a effetto serra, sono emessi in maniera massiccia da alcune attività produttive. Per esempio, gli allevamenti intensivi di animali. Per capire quanto e come inquini questo settore dell’agroalimentare è necessario analizzare le modalità di zootecnia industriale. Essa comporta la presenza di un elevato numero di esemplari su spazio ristretto. La logica produttiva che sta alla base di questa condizione richiede inevitabilmente grandi quantità di mangime, un ampio ed esteso utilizzo di farmaci nonché un consumo considerevole di acqua.
Va poi aggiunto, a quanto già descritto, un ulteriore elemento di impatto ambientale dovuto agli allevamenti intensivi: la produzione di ingenti quantità di escrementi animali. Si tratta di un aspetto secondario rispetto a quelli già evidenziati, ma che non va comunque sottovalutato. In aggiunta a quanto descritto, gli allevamenti intensivi causano ulteriori impatti sull’ambiente. Le deiezioni provocano infatti un’immissione nell’atmosfera di gas serra più pericolosi dell’anidride carbonica. È il caso di ammoniaca e metano. Questi agenti persistono più a lungo prima di dissolversi, e possiedono una maggiore capacità climalterante rispetto ai gas serra generati dalla combustione di fonti fossili.
Le cause dell’inquinamento
Le indagini ISPRA ci dicono che gli allevamenti intensivi sono causa del 75% di tutte le emissioni di ammoniaca in Italia. Numeri alla mano, siamo di fronte alla seconda fonte di polveri sottili, nel nostro Paese, dopo il riscaldamento. Non solo. Un recente rapporto di FAIRR Initiative rende noto che queste attività produttive generano il 44% delle emissioni globali di metano e che il fatto non importi granché, dal momento che solo 9 delle 50 principali realtà mondiali operanti nel settore monitorino con costanza le proprie emissioni.
Ogni animale causa un inquinamento differente, che incide in maniera diversa sulla biosfera in cui vive. ISPRA ci dice che il 30,2% delle emissioni di ammoniaca si deve alle vacche da latte, il 14% dai suini e il 12 dagli avicoli. La restante percentuale è causata da tutti gli altri bovini allevati nella zootecnia. Per quanto riguarda il comparto dell’agricoltura, il 79% delle emissioni di gas serra si deve all’allevamento.
Risuddividendo questa considerevole percentuale, la fermentazione enterica provoca il 47% di questo inquinamento, la gestione delle deiezioni il 19% e il trattamento dei suoli agricoli il 27,6%. La fermentazione si deve al processo digestivo durante il quale appositi microorganismi scompongono i carboidrati in molecole semplici e facilmente assorbibili. Questo processo produce gas di scarto impattanti.
Greenpeace ha lanciato un monito che faremmo bene a non lasciare inascoltato. Negli ultimi 16 anni, gli allevatori non hanno mai ridotto la propria produzione di polveri sottili. Anzi, i livelli di inquinamento dovuti a questo comparto sono aumentati. Che la transizione ecologica sia un obiettivo difficile da raggiungere per numerosi settori è indubbio. Se però consideriamo che industria, agricoltura slegata dalla zootecnia e trasporti hanno già iniziato ad alleviare la loro impronta ecologica, ci rendiamo conto di quanto il settore dell’allevamento sia in ritardo.
Rischi ambientali connessi all’operato degli allevamenti intensivi
L’associazione dei medici impegnati per l’ambiente (ISDE) ha lanciato un allarme sui rischi per la salute di uomo, società e ambiente legati agli allevamenti intensivi. Secondo lo studio, le criticità più considerevoli sarebbero le seguenti:
- rischio di zoonosi. L’alta concentrazione di animali in un luogo ristretto aumenta infatti il rischio di malattie, alcune delle quali possono essere trasmesse agli essere umani (spillover);
- sviluppo di resistenze antimicrobiche. Gli animali hanno difese immunitarie basse e richiedono un utilizzo ingente di medicinali. Ciò aumenta la probabilità dello sviluppo di nuovi virus, resistenti agli antibiotici;
- sottrazione di risorse alimentari all’uso umano. La necessità di dedicare grandi appezzamenti di terra alla coltivazione di mangimi comporta la diminuzione di suolo e risorse per le esigenze umane;
- impatto ambientale delle coltivazioni. La FAO denuncia questa pratica insostenibile che provoca, da un lato, problemi di obesità e, dall’altro, denutrizione dovuta all’impossibilità, per milioni di persone, di accedere al cibo;
- eccessivo consumo d’acqua dovuto alle esigenze idriche degli animali;
- inquinamento della falda. Esso sarà direttamente proporzionale al numero di capi di bestiame allevati;
- consumo di terreno e deforestazione legata alla necessità di disporre di maggiore spazio;
- riduzione della biodiversità con alterazione della biosfera;
- effetti negativi su pesca e acquacoltura, causati dall’inquinamento delle falde sopra le quali insistono gli allevamenti;
- emissione di gas climalteranti.
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