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Agricoltura 4.0 grazie a nanotecnologie ottenute dagli scarti

Agricoltura 4.0 grazie a nano tecnologie ottenute dagli scarti
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Migliorare la qualità di salute del suolo e stimolare la crescita delle piante attraverso lo sviluppo di biostimolanti e sensori realizzati con le nanotecnologie, a partire dagli scarti agricoli e da quelli dell’industria alimentare. Il progetto TERRE del CNR mira a ridurre l’impronta ambientale del settore agricolo.

Uso di pesticidi e fertilizzanti, consumi di acqua, deforestazione e perdita di biodiversità. Sono tanti gli aspetti su cui è possibile lavorare per alleviare l’impronta ambientale dell’agricoltura, renderla più sostenibile e al contempo più efficiente. Tra queste, il progetto TERRE del CNR punta a recuperare la salute dei suoli e garantirne la produttività, grazie allo sviluppo di nuovi prodotti agricoli, che – in combinazione con l’utilizzo di sensori – agiscono come biostimolanti per la crescita delle piante. Entrambi, sensori e biostimolanti, sono realizzati con materiali intelligenti, nano-strutturati, a partire da scarti dell’agricoltura e dell’industria agroalimentare.

“Utilizziamo le nanotecnologie sia per sviluppare un’agricoltura di precisione basata su sensori, sia per sistemi nanobiostimolanti in grado di supportare e di promuovere lo sviluppo delle piante” spiega Antonella Macagnano, coordinatrice del progetto.

La nocciola e le matrici nanofibrose

“Le nanotecnologie hanno introdotto strumenti innovativi e rivoluzionari per applicazioni mirate, migliorando la qualità del suolo” si legge sulla pagina web del progetto.  In che modo? Il progetto del CNR sviluppa matrici con trame nanometriche (garze, tessuti, reti) ottenute utilizzando alcune categorie di scarti agro-industriali o residui di processi biotecnologici. Il tutto trattato con la tecnologia dell’elettrofilatura polimerica.

Cosa sia ce lo spiega ancora Macagnano: “L’elettrofilatura, in inglese electrospinning, è una tecnologia usata dagli inizi del secolo scorso per produrre micro-nanofibre da polimeri (la calze in microfibra, ad esempio) e che piano piano è stata impiegata per numerose applicazioni. Oggi, ad esempio, viene usata tantissimo a livello commerciale per la produzione di tessuti sportivi smart, che contengono vari tipi di sensori: lo smart textile”.  Le ricercatrici e i ricercatori del CNR applicano questa tecnologia ai gusci e alle cuticole delle nocciole (l’Italia è il secondo produttore al mondo dopo la Turchia e, in più, importa metà del proprio fabbisogno) dando seconda vita ad uno scarto usualmente impiegato per usi di basso valore e garantendone maggiore valore aggiunto.

“Dagli scarti di nocciola – aggiunge Macagnano – estraiamo dei biopolimeri, come cellulosa e lignina, che attraverso l’elettrofilatura possono agire da supporto, rendendo per esempio più resistenti le nanostrutture alle differenti condizioni ambientali. A questo scheletro aggiungiamo altri composti per funzionalizzarlo”.

Lo scheletro nanofibroso diventa così un materiale attivo che interagisce con l’ecosistema del terreno. Ma cosa viene aggiunto al nanotessuto per garantire questa attivazione? “Usiamo quelli che vengono definiti genericamente polifenoli – spiega Macagnano – sostanze organiche che apportano molteplici benefici, sia alla salute umana, sia alla fisiologia vegetale e sono utilizzate tantissimo nella nutraceutica, per le loro proprietà antiossidanti e antitumorali. In agricoltura, somministrati al terreno, possono stimolare lo sviluppo delle radici delle colture. I polifenoli in questione sono presenti in molti prodotti di scarto, dalle nocciole, alle olive, all’uva, all’orzo e al luppolo: per questo progetto li abbiamo prelevati sia dai gusci che dalle cuticole delle nocciole. Ma siamo anche andati in un birrificio artigianale e abbiamo utilizzato gli scarti provenienti dalle varie fasi di birrificazione e in un’industria vitivinicola, estraendoli da vinacce e raspi”.

Come i nanotessuti possono aiutare l’agricoltura

Pur partendo da dimensioni nano, cioè attorno al miliardesimo di metro (un milionesimo di millimetro), con l’elettrofilatura si possono ottenere anche tessuti molto grandi, fino ad alcuni metri quadri. I nanotessuti possono poi essere posti attorno alle radici delle piantine, in campo, o all’interno di vasi nei vivai, per rilasciare sostanze utili alla pianta. Oppure possono essere usati attorno ai semi per proteggerli dalle muffe o per stimolarne la germinazione. I biostimolanti sono una nuova categoria di “fertilizzanti”, che comprende sostanze e microrganismi capaci di influenzare positivamente la crescita delle colture.

“I prodotti in fase di sviluppo – sottolinea la coordinatrice del progetto – migliorano l’efficienza nell’uso dei nutrienti, aumentano la tolleranza agli stress ambientali e contribuiscono a migliorare la qualità del raccolto”. Usare questi tessuti consente di mantenere i polifenoli localizzati e concentrati intorno alle piante; a differenza dell’applicazione diretta sul terreno, che li lascerebbe soggetti all’azione di dilavamento della pioggia. Inoltre, si può ingegnerizzare il tessuto in modo che li rilasci quando c’è bisogno. “Si possono sviluppare tessuti – spiega la ricercatrice – sul modello delle strutture biomedicali per il rilascio di farmaci, in modo che stimolati dalla luce, dalla pioggia, dalla siccità o dal pH del suolo, rilascino le sostanze benefiche quando la pianta ne ha bisogno”.

Il CNR lavora anche a sistemi che ospitino popolazioni microbiche in grado di promuovere la crescita delle colture attraverso lo sviluppo di tessuti con biofilm di microrganismi benefici per le piante.

Il progetto TERRE per la ricerca di nuove nonotecnologie

Tra gli obiettivi del progetto TERRE, c’a lo sviluppo di una sensoristica a basso costo che aiuti gli agricoltori e ottimizzi i processi in campo utilizzando la microelettronica convenzionale, con oro e silicio.

“Sotto stress – racconta Macagnano – le foglie di alcune piante emettono un maggiore quantitativo di limonene (un idrocarburo di origine vegetale): abbiamo allora sviluppato un sensore selettivo conduttometrico a basso costo (misura la variazione di corrente del sensore quando è esposto alla sostanza da rilevare, ndr) per il limonene in aria, da integrare ad altri sensori che vanno a monitorare altri parametri fisiologici, per offrire una foto a tutto tondo dello stato di salute della pianta. Anche alcuni pigmenti delle piante sono estratti e utilizzati per lo sviluppo di sensori, grazie alla loro capacità di cambiare colore in presenza di composti gassosi bioindicatori dello stato di salute delle piante (sensori colorimetrici – in grado cioè di rilevare, misurare e riconoscere il colore)”.

Il CNR vorrebbe sviluppare dei sensori prodotti dagli scarti. “Le piste di un elettrodo, ad esempio, invece che in metallo potrebbero essere realizzate in carbone conduttivo proveniente da lignina, che poi verrebbe degradato nell’ambiente una volta terminato il suo impiego”. Lo stesso per il substrato: “stiamo cercando di sviluppare delle resine naturali biodegradabili su cui costruire la bio-microelettronica. In questo modo si potranno usare sensori per il monitoraggio di ogni singola pianta, perché a basso costo e a basso impatto ambientale”.  

Nell’ambito delle iniziative di ricerca strategiche, il progetto TERRE, finanziato con 200mila euro, ha una spiccata vocazione multidisciplinare e coinvolge quattro diversi istituti del Consiglio Nazionale delle Ricerche: l’Istituto sull’Inquinamento Atmosferico-IIA; l’Istituto per i Polimeri, Compositi e Biomateriali-IPCB, l’Istituto di Ricerca Sulle Acque-IRSA; l’Istituto per la BioEconomia-IBE. L’Università della Tuscia (Dipartimento per la Innovazione nei sistemi biologici, agroalimentari e forestali-DIBAF) è partner del progetto, insieme ad alcuni stakeholders (Birrificio Podere 676, Azienda Vinicola Antonelli, Nocciolifici Viconuts e Il Casale dell’Arcipretura). In scadenza a febbraio di quest’anno, il progetto è stato prorogato fino ad agosto 2025.

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