Misurare i risultati ottenuti rispetto a obiettivi di sviluppo sostenibile è un’esigenza che si è ormai affermata nel dibattito pubblico. Al quale il sistema universitario italiano contribuisce con sperimentazioni e ricerche finalizzate a dare concretezza alle strategie di sviluppo.
L’idea di identificare concetti e metodi di misurazione del progresso sociale che vadano oltre i limiti consentiti dal tradizionale riferimento alla crescita economica si è ormai ampiamente affermata nel dibattito pubblico. In tutto il mondo si sono sviluppate iniziative diverse, promosse da organizzazioni sociali e istituzioni nazionali e internazionali, volte a sperimentare forme di partecipazione collettiva alla definizione e alla misurazione delle iniziative varate per il perseguimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile.
Il riferimento principale è il sistema di obiettivi quantitativi e indicatori incorporato nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, risultato della graduale presa di coscienza della comunità internazionale sui limiti del modello di sviluppo seguito finora. Questo cambiamento di visione si era già manifestato, tra l’altro, in iniziative come lo Human Development Index e gli altri indicatori compositi elaborati dallo United Nations Development Programme (UNDP), i Millennium Development Goals fissati dalle Nazioni Unite per il 2015, e la Better Life Initiative dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE).
In Italia la principale iniziativa ufficiale è il progetto per misurare il Benessere equo e sostenibile (BES) realizzato a partire dal 2013 dall’Istat in collaborazione con rappresentanti delle organizzazioni sociali. Gli indicatori BES vengono considerati nel Documento di economia e finanza del Governo e sono resi disponibili non soltanto a livello nazionale, ma anche per singoli territori.
L’interesse per questi temi e strumenti è sempre più forte anche nel dibattito pubblico e si esprime, tra l’altro, nel grande lavoro realizzato dall’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS) che, oltre a un rapporto annuale che analizza lo stato di avanzamento dell’Agenda 2030 in Italia, mette a disposizione dettagliate analisi a livello territoriale, per Regioni, Province e sistemi urbani.
Indicatori per la responsabilità sociale delle imprese
La tendenza a cercare di misurare i risultati ottenuti rispetto a obiettivi di sviluppo sostenibile, definiti in modo molto ampio, investe anche il mondo delle imprese e i mercati finanziari, dove si diffondono sistemi di rendicontazione e valutazione del rischio ispirati ai criteri ESG (Environmental, Social, Governance). La recente Direttiva europea per la rendicontazione societaria di sostenibilità (Corporate Sustainability Reporting Directive, CSRD) si propone di rendere più stringenti ed efficaci gli standard europei sulle informazioni che le imprese devono pubblicare riguardo ai possibili impatti ambientali e sociali delle loro attività. Questa iniziativa è stata motivata dalla crescente insoddisfazione per i limiti delle informazioni non finanziarie rese disponibili dalle imprese, che, da un lato, non consentono agli investitori di valutare adeguatamente i rischi delle attività finanziate e, dall’altro, ostacolano il controllo pubblico su tali attività da parte delle organizzazioni sociali interessate.
I detrattori dell’approccio ESG sostengono comunque che si tratti di operazioni volte soltanto a migliorare l’immagine pubblica delle imprese interessate. In un inserto speciale pubblicato nel 2022, il settimanale The Economist si schierava nettamente contro il concetto di ESG, ritenendolo un miscuglio ambiguo di finalità e prospettive diverse, e suggeriva di lasciare la rendicontazione degli aspetti sociali e istituzionali dello sviluppo sostenibile a iniziative volontarie come la Global Reporting Initiative, concentrando gli sforzi sugli aspetti ambientali e in particolare sulla rendicontazione delle emissioni climalteranti, anche al fine di facilitare l’adozione di forme efficaci di tassazione delle attività che le generano.
Un approccio analogo, volto a distinguere meglio le diverse dimensioni dello sviluppo sostenibile, sembra aver ispirato la Commissione europea che, nel presentare la nuova direttiva CSRD, la collega esplicitamente allo European Green Deal, ma non fa alcuna menzione dello European Pillar of Social Rights. D’altra parte, è di pochi giorni fa l’approvazione finale, da parte del Consiglio dell’Unione Europea della Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD), che mira a imporre alle imprese l’obbligo di identificare e affrontare gli impatti negativi delle loro azioni sui diritti umani e sull’ambiente, all’interno e all’esterno dell’Europa.
Pur con i limiti del compromesso politico che ne ha consentito l’approvazione, questa nuova Direttiva riconosce il principio della responsabilità delle imprese nei confronti di portatori di interesse diversi dagli azionisti, che si può ritrovare anche nelle proposte per adottare forme più avanzate di democrazia economica, come i Consigli del lavoro e della cittadinanza, proposti dal Forum Disuguaglianze Diversità. Il dibattito pubblico su questi temi evidenzia, comunque, i contrasti di interesse e i conflitti sociali alimentati dall’aumento delle diseguaglianze che si è verificato negli ultimi decenni.
Sviluppo sostenibile e rigenerazione territoriale: il contributo delle università
Il dibattito è in corso anche nel sistema universitario italiano. Con riferimento esplicito agli Obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, la Rete delle università per lo sviluppo sostenibile (RUS) sta sperimentando un insieme di indicatori utili a orientare le attività di collaborazione sociale degli atenei e a misurarne i risultati, con riferimento a temi come il cambiamento climatico, l’energia, la mobilità, l’uso delle risorse e i rifiuti, l’alimentazione, l’inclusione e la giustizia sociale. Un’operazione nata in alternativa ad approcci di tipo competitivo, come quello delle graduatorie delle università elaborate da agenzie di valutazione esterne, e animata dalla volontà di offrire supporto per l’elaborazione dei piani strategici di ciascun ateneo, nella consapevolezza della grande rilevanza dei diversi contesti territoriali in cui operano. In questa visione, ciò che conta è la capacità di ottenere miglioramenti nel corso del tempo, piuttosto che il confronto competitivo con le altre università.
Il ruolo degli atenei nel perseguimento di obiettivi di giustizia sociale e ambientale non si esaurisce nelle attività di formazione, ma si estende al vasto insieme delle attività di ricerca e valorizzazione delle conoscenze svolto in collaborazione con altri soggetti sociali, con particolare rilievo nelle aree svantaggiate dal punto di vista economico e sociale, o vulnerabili al rischio di disastri, di origine naturale o antropica.
Un esempio importante è offerto dall’Abruzzo. Dopo il terremoto del 2009, un rapporto elaborato dall’OCSE identificava nella costruzione partecipata di un sistema di indicatori di progresso sociale uno degli strumenti più importanti per favorire la rigenerazione dell’area colpita dal sisma e della sua regione. L’Università dell’Aquila si è posta il problema di come rendere disponibili e comprensibili alla generalità dei cittadini le informazioni sui fenomeni sociali e sulle misure di intervento, attraverso il ricorso a metodi e tecniche di partecipazione dal basso, perché siano le organizzazioni sociali e i cittadini a decidere quali dati e informazioni siano indispensabili: un passaggio importante nell’identificazione di obiettivi di progresso economico e sociale misurabili e un primo passo nell’appropriarsi della sfida di determinare il proprio futuro.
La costruzione socialmente partecipata di indicatori di progresso condivisi diventa in questo senso uno strumento fondamentale per orientare le politiche e consentire la valutazione dei loro risultati da parte dei cittadini. Frutto di questo lavoro è la nascita del centro Territori Aperti, che si basa su una piattaforma di raccolta ed elaborazione avanzata dei dati, inserita nella rete europea SoBigData RI, che svolge attività di formazione, ricerca e collaborazione sociale, tra le quali ha trovato spazio anche la costruzione di una metrica di benessere sociale per la rigenerazione delle comunità esposte ai rischi di disastri, che sarà presentata pubblicamente entro il mese di settembre.
Contro la retorica della competizione tra i territori
Il dibattito sulle politiche per la rigenerazione territoriale è animato da una fioritura di analisi e proposte, che spesso si basano su dati e indicatori costruiti per mettere a confronto territori diversi e compilare graduatorie, utili soltanto a colpire l’opinione pubblica e influire sulla formazione del senso comune. Non sempre si presta adeguata attenzione al fatto che la comparabilità tra i territori è fortemente limitata dalle loro diverse caratteristiche strutturali, che ne spiegano la storia passata e ne condizionano le possibilità evolutive. Si rischia quindi di orientare il dibattito verso proposte politiche semplicistiche, che non si adattano ai contesti territoriali e sociali in cui dovrebbero essere applicate.
La moltiplicazione di dati e fonti statistiche crea grandi opportunità per orientare le politiche e favorirne il controllo democratico da parte delle comunità a cui sono rivolte, a patto che gli indicatori statistici siano utilizzati per misurare le condizioni iniziali di un territorio e indicare la direzione del cambiamento che le politiche intendono realizzare. In questa logica, ciascun sistema sociale è in competizione essenzialmente con sé stesso, piuttosto che con gli altri, perchè ciò che conta è la capacità delle politiche di far evolvere il sistema nelle direzioni desiderate, indipendentemente da ciò che accade altrove. Naturalmente, questo approccio riconosce l’interdipendenza dei percorsi seguiti dai diversi sistemi sociali.
Ogni comunità, per esempio, si trova ad affrontare alcune sfide fondamentali, come quella del cambiamento climatico, che hanno una portata planetaria, rendendo illusoria qualsiasi velleità di isolamento identitario. Inoltre, il processo della globalizzazione, pur avendo manifestato segni vistosi di rallentamento negli scambi e negli investimenti internazionali, continua a svilupparsi attraverso i canali digitali, accrescendo ulteriormente l’interdipendenza tra i mercati nazionali. Ne consegue che la capacità delle politiche locali di realizzare i cambiamenti desiderati può essere, a seconda dei casi, favorita o frustrata dall’evoluzione dello scenario internazionale. Peraltro, la capacità di analizzare il contesto esterno in cui vivono i sistemi locali è preziosa anche nel senso che può alimentare quei processi di apprendimento reciproco tra territori diversi, tramite i quali possono aprirsi percorsi inattesi di diffusione delle conoscenze e innovazione sociale.
Rifiutare la retorica della competizione tra i territori è soltanto il primo passo per adottare una visione del cambiamento sociale e della rigenerazione territoriale, in cui ogni comunità concorre al perseguimento di obiettivi condivisi di giustizia sociale e ambientale, che coinvolgono tutta l’umanità, cercando di dare un contributo proporzionato alle proprie caratteristiche iniziali e prestando attenzione ai rischi e alle opportunità che derivano dall’interdipendenza reciproca.
In questa visione, i dati e le metriche della rigenerazione territoriale servono a dare concretezza alle strategie di sviluppo. Si tratta, da un lato, di permettere alle autorità politiche di definire e annunciare obiettivi chiari, che indichino la direzione del cambiamento desiderato; dall’altro, di consentire alle organizzazioni sociali, alle imprese e alla cittadinanza di valutare la qualità delle politiche messe in atto.