Dal Perù alla Thailandia, a gennaio sono andati dispersi in mare più di un milione di litri di petrolio. Ecco le tecniche usate per gestire gli sversamenti e minimizzare l’impatto ambientale.
Due incidenti in punti opposti del globo, a fine gennaio, hanno causato importanti sversamenti di petrolio in mare. Il primo in Perù, non lontano da Lima, il secondo in Thailandia. Oltre un milione di litri di petrolio sono finiti negli oceani e sulle spiagge, e l’intervento dei soccorsi ha solo ridotto l’impatto degli sversamenti. Niente a che vedere, comunque, coi grandi disastri del passato. E, in tempi di crisi climatica, c’è chi (come David Ho scienziato del clima statunitense) si domanda se quel petrolio, qualora fosse arrivato a destinazione e fosse poi divenuto carburante, non avrebbe prodotti danni ancora più gravi.
In mare oltre un milione e mezzo di litri di petrolio
Il 15 gennaio, al largo di Lima, mentre la petroliera Mare Doricum, battente bandiera italiana, consegnava il suo carico attraverso infrastrutture sottomarine alla raffineria La Pampilla (della compagnia spagnola Repsol) oltre 10.000 barili di petrolio sono finiti in mare, per oltre un milione e mezzo di litri. In pochi giorni il greggio ha raggiunto la costa contaminando una ventina di spiagge, secondo l’Organismo di valutazione e controllo ambientale peruviano (Oefa). Immediatamente dichiarata l’emergenza ambientale. Repsol attribuisce l’incidente allo tsunami provocato dall’eruzione di un vulcano sottomarino nell’isola di Tonga. Quasi negli stessi gironi, il 25 gennaio, nelle acque antistanti la provincia thailandese di Rayon, una perdita nell’oleodotto sottomarino di proprietà della Star Petroleum Refining ha causato la dispersione in mare di 350 barili di petrolio, pari a più di 55 mila litri. La preoccupazione delle autorità è legata principalmente all’impatto ambientale sulle barriere coralline e sulle spiagge turistiche.
Gli incidenti più drammatici
Queste non irrilevanti quantità di petrolio sono comunque poca cosa rispetto ai grandi incidenti del passato. Quello che, probabilmente, è il più grande disastro della storia è stata l’esplosione della piattaforma di perforazione offshore Deepwater Horizon avvenuta il 22 aprile del 2010. Oltre 800 mila tonnellate di greggio uscirono dal pozzo nel Golfo del Messico prima che venisse chiuso. Tra i più gravi incidenti va annoverato anche quello della superpetroliera Amoco Cadiz che s’incagliò al largo delle coste bretoni nel marzo 1978, rilasciando in mare oltre 220 mila tonnellate di petrolio. Nel 1993 la MV Braer, che dalla Norvegia si dirigeva in Canada, si incagliò al largo delle isole Shetland, in Scozia. Dopo una settimana lo scafo, a causa di una fortissima tempesta rilasciò quasi 150 mila tonnellate di greggio. Infine a largo di Genova, nell’aprile del 1991, a causa di un incendio la superpetroliera Amoco Milford Haven riversò in mare 144 mila tonnellate di petrolio, gran parte delle quali andarono bruciate.
Le tecniche per gestire gli incidenti
Secondo la Protezione civile, circa un terzo degli sversamenti avvengono durante le operazioni di carico e scarico. Il 15% durante altre operazioni di routine; uno sversamento su 10 avviene per esplosioni, il 3% per arenamento, il 2% per collisioni, il 6% per falle nello scafo e un altro 6% durante le operazioni di rifornimento di carburante. In quasi un quarto degli incidenti le cause non vengono mai identificate. Ma come ci si comporta in caso di incidenti? In mare si impiegano lunghe file di panne galleggianti, barriere antinquinamento che servono ad evitare l’ulteriore dispersione degli idrocarburi. Di varia forma e dimensione, tutte le panne sono composte di una parte galleggiante e una immersa dotata di zavorra, per evitare che il vento o le correnti le sollevino dal pelo dell’acqua lasciando filtrare il petrolio. L’efficacia di questi strumenti è direttamente legata alle condizioni del mare e si riduce quando aumenta il moto ondoso. Ci sono poi le panne assorbenti: spesso usate congiuntamente alle prime, possono essere di torba, paglia, segatura, lana, schiuma di poliuretano, polietilene. Una volta sature di idrocarburi, vanno smaltite. Quando il petrolio sversato è contenuto dalle panne, vengono impiegati gli skimmer, macchine scrematrici per il recupero meccanico attraverso spazzole rotanti. Formati da una parte aspirante e un serbatoio dove raccogliere il prodotto inquinante, la loro efficienza, come per le panne, dipende dalle condizioni marine. La frontiera più innovativa nell’abbattimento dell’inquinamento da idrocarburi è legata alle biotecnologie. Sono numerosi ormai i prodotti che impiegano batteri (ad esempio batteri idrocarburoclastici come Alcanivorax sp o Thalassolituus sp) il cui metabolismo decompone gli inquinanti.