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Upcycling fashion: la guida definitiva alla moda sostenibile

L'upcycling permette alle aziende di riutilizzare materiali di scarto per la produzione dei loro vestiti: ecco come funziona nel dettaglio.
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Della raccolta differenziata e dello spettro del riscaldamento climatico abbiamo ormai sentito parlare tutti. Forse, però, non tutti conoscono il termine upcycling, un trend sempre più diffuso nel mondo della moda e abbracciato soprattutto da parte di quelle realtà che si sono rese conto di quanto la sostenibilità sia di importanza vitale nella produzione di abiti.

La parola è stata coniata per la prima volta in assoluto nel 1994 da Reiner Pilz, un ingegnere meccanico tedesco che in un’intervista concessa al magazine Salvo aveva dichiarato:

Il riciclo io lo chiamo down-cycling. Quello che ci serve è l’up-cycling, grazie al quale ai vecchi prodotti viene dato un valore maggiore, e non minore”.

Oggi, a 30 anni di distanza, il neologismo coniato da Pilz sta a indicare un processo molto diverso dal riciclo, concetto noto ai più. Con l’upcycling si tende infatti a recuperare materiali e prodotti usati per regalare ad essi una nuova vita, aumentandone la qualità (reale o percepita). Vediamo dunque tutto quello che è necessario sapere riguardo a questo argomento così affascinante (e come è possibile aggiornare il proprio guardaroba in modo green).

Come si fa l’upcycling

Con il termine upcycking nel mondo della moda si fa riferimento all'utilizzo di materiali di scarto per la creazione di abiti. Ecco come funziona.
Maglioni e camicie.

Mentre nel riciclo i materiali vengono spesso ridotti ad una materia prima grezza, l’upcycling trasforma gli scarti dando vita a pezzi unici di grande valore. Tale processo comporta dunque non soltanto il recupero degli scarti, ma anche e soprattutto la loro riparazione, la loro trasformazione e in ultima battuta la combinazione dei tessuti e dei materiali ottenuti per la creazione di nuovi accessori o capi d’abbigliamento all’ultima moda.

Per quanto questo tipo di processo sia diventato un trend solo in tempi relativamente recenti, i primissimi esempi di upcycling si possono ritrovare già verso la fine degli anni ’80: pensiamo ad esempio alle prime sperimentazioni di Martin Margiela, che diede per primo inizio ad una rivoluzione nel settore del fashion con i suoi particolari abiti decostruiti progettati con scarti di tessuto e con la tecnica del patchwork, una scelta certamente ardita per i tempi che oggi viene interpretata come grande dimostrazione di lungimiranza.

Attualmente, chi applica questi principi di moda sostenibile si muove essenzialmente su due fronti: da un lato è possibile fare upcycling pre-consumer, utilizzando cioè scarti di tessuto che ancora non sono mai diventati parti di altri abiti; in alternativa si può fare upcycling post-consumer, sviluppando nuovi capi a partire da stoffe e materiali che in precedenza già erano stati indossati.

I vantaggi dell’upcycling

In un’ottica sostenibile, risulta evidente come la moda possa beneficiare enormemente da questa modalità produttiva: tutte le più importanti maison, ma anche i piccoli produttori, riusciranno con questi meccanismi a evitare gli sprechi, contribuendo al contempo alla riduzione dei rifiuti prodotti da un settore già di per sé particolarmente inquinante. Non avrebbe alcun senso, a ben pensarci, buttare nella spazzatura vestiti solo lievemente sgualciti o rovinati.

Come anticipato, l’upcycling è un processo di produzione di capi d’abbigliamento estremamente interessante anche perché permette ai designer di dare spazio alla loro creatività creando capi unici, personalizzabili e impossibili da trovare altrove.

C’è poi un altro fattore piuttosto evidente, che è quello del risparmio: rigenerando vestiti che già abbiamo in casa eviteremo di spendere altri soldi e di ingrossare ulteriormente le casse dei giganti del fast-fashion, che com’è noto hanno un impatto devastante non solo sugli ecosistemi e sulla biodiversità ma anche sulle comunità locali.

Le aziende che si sono distinte nell’upcycling

Sempre più aziende stanno applicando i principi dell'upcycling per la creazione dei loro abiti: ecco cos'è questo processo sostenibile.
Cinque modelle.

Sono già numerosi i brand che hanno deciso di cambiare prospettiva tentando nuove strade per la produzione dei loro vestiti, basate sul riutilizzo di materiali di scarto e sull’eccezionale spirito creativo dei loro designer. Pensiamo per esempio alle creazioni di Melisa Minca, che ha come mission la volontà di modificare il rapporto che le persone hanno con i loro vestiti, in modo tale che il riutilizzo dei capi non diventi tanto una semplice abitudine ma una reale priorità. Molto interessante, inoltre, è stato il lavoro che negli ultimi anni è stato portato avanti dal marchio Garbage Core, la cui designer realizza a mano abiti sostenibili a partire dagli scarti trovati in mercatini, negli armadi della sua famiglia o negli scatoloni che le vengono inviati dai sostenitori del progetto. Per chi è alla ricerca di abiti genderless fatti a mano vale la pena segnalare anche l’Atelier Florania, con base a Milano, la cui filosofia si basa su una visione ottimistica del futuro che mette l’artigianalità al centro. Il marchio Raeburn, inoltre, propone ai suoi clienti abiti sviluppati a partire da materiali originariamente utilizzati in ambito militare. Il brand ha sfruttato, tra le altre cose, alcuni elementi di vecchie giacche da campo in lana per la creazione di nuovi abiti, originali e molto trendy.

Parlando di brand di lusso, infine, in tempi non sospetti a provare la strada dell’upcycling sono stati anche molti altri nomi particolarmente altisonanti, tra i quali spiccano quelli di Stella McCartney e Louis Vuitton, che con materiali di scarto hanno realizzato borse e gioielli pregiati (e non per tutte le tasche).

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Alberto Muraro

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