Consumo energetico, emissioni, utilizzo della risorsa idrica, salvaguardia degli ecosistemi e del paesaggio, materiali utilizzati e rifiuti prodotti sono gli elementi che consentono di valutare la sostenibilità di un intervento di bonifica. Ne abbiamo parlato con il professor Giovanni Pietro Beretta.
Una bonifica può essere condotta in modo più o meno sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale ed economico e questo concetto è ormai entrato nella pratica della progettazione e della realizzazione degli interventi, sia di competenza privata che pubblica. Nel risanare un territorio e le sue acque, si possono adottare soluzioni diverse, con diversi impatti sull’ambiente: sono le bonifiche green, che tengono conto anche delle emissioni provocate che, come è noto, devono considerare anche il problema dei cambiamenti climatici. L’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente, l’EPA (Environmental Protection Agency) definisce una bonifica green come “la pratica di considerare tutti gli effetti ambientali dell’implementazione della bonifica e di incorporare le opzioni per massimizzare il beneficio ambientale netto delle azioni di bonifica”. Le bonifiche verdi (green remediation), riducono dunque l’impronta ambientale delle attività di risanamento durante l’intero ciclo di vita di un progetto, che può essere anche lungo. Di bonifiche green abbiamo parlato con Giovanni Pietro Beretta, docente di “Qualità risorse idriche e bonifiche” all’Università Statale di Milano, intervenuto a Pescara nell’ambito del convegno “Abruzzo: dalla rigenerazione alla valorizzazione del territorio”.
Giovanni Pietro Beretta, cosa distingue una bonifica green da una tradizionale?
“Con una bonifica verde o green remediation si cerca di ridurre l’impatto sull’ambiente della stessa attività di bonifica. Sono 5 gli elementi cardine su cui lavorare: consumo energetico, emissioni in atmosfera (con particolare riferimento alla CO2), utilizzo della risorsa idrica, salvaguardia degli ecosistemi e del paesaggio, tipologia dei materiali che si utilizzano e rifiuti che si producono”.
Quanto è diffusa in Italia la pratica delle bonifiche green?
“Stiamo parlando di una cosa piuttosto nuova per il nostro Paese: non ne ho viste tante. È un concetto che in Italia non è ancora entrato nella pratica, ma che certamente verrà perseguito; in realtà qualcuno degli obiettivi della green remediation, seppure in modo indiretto, viene attualmente considerato nella progettazione”.
Dai consumi agli investimenti, la sostenibilità è un tema sempre più diffuso. Perché nelle bonifiche siamo in ritardo?
“Credo siano alcuni motivi principali. Il primo ha a che fare con l’aspetto giuridico delle bonifiche, che tante volte prevale sull’aspetto tecnico: in molti casi la norma impone di intervenire a certe condizioni, limitando le possibilità praticabili. Va detto però che le cose stanno cambiando: in quanto si è presa maggiore coscienza dell’importanza del risanamento ambientale e delle notevoli difficoltà che si devono affrontare. Basti pensare che indagini, studi e progetti, dal punto di vista dimensionale, possono interessare nanometri o svariati chilometri”.
Quali gli altri motivi del ritardo?
“Purtroppo, questo tipo di iniziative non è ancora pienamente entrato nella mentalità di chi opera le bonifiche, in quanto dovrebbe ritenersi opportuno privilegiare le bonifiche che adottano un approccio maggiormente green, integrando interventi tradizionali con quelli innovativi, che negli ultimi decenni si sono ampiamente sviluppati anche in Italia. Inoltre, avere chiaro l’utilizzo futuro del sito contaminato permette di attivare sinergie – come si è verificato in molti casi nell’area del milanese – che generano la rigenerazione di aree dismesse oppure orfane. Ricordo che per siti medio-grandi da bonificare sono necessari investimenti anche di milioni di euro. Non ultimo, il tempo necessario per passare dalla iniziale caratterizzazione ambientale di un sito alla certificazione finale dell’avvenuta bonifica è troppo elevato e quindi da ridurre”.
Professor Beretta, una bonifica green costa più di una tradizionale?
“Non conosco statistiche relative all’Italia, ma i dati disponibili che ho consultato per gli Stati Uniti ci dicono che una green remediation richiede un maggiore approfondimento e un 10-15% di costi in più per gli oneri di progettazione, mentre non sembrano incidere significativamente su quelli di costruzione (CAPEX). In ogni caso, sono da migliorare in Italia le valutazioni di quelli di gestione (OPEX), che possono abbracciare anche diversi anni di funzionamento degli impianti ed è quindi necessario organizzare un monitoraggio a lungo termine”.
Può farci un esempio di green remediation e spiegarci in modo semplice perché sono da considerarsi green?
“Consideriamo un sito di grande estensione contaminato da solventi. Un sistema che pompa fuori acqua inquinata, la tratta e la scarica (il cosiddetto pump & treat), per il solo funzionamento dei pozzi e dell’impianto di trattamento, consuma circa 600mila kWh/anno: tutta energia elettrica che, col mix di sorgenti energetiche di cui disponiamo in Italia, comporta emissioni climalteranti. Un sistema di bioremediation, che prevede l’iniezione nel terreno di sostanze che alimentano la degradazione operata da microrganismi, consuma energia circa 10 volte in meno. Stesso discorso per l’uso dell’acqua: nell’approccio tradizionale parliamo di circa 140mila metri cubi l’anno prelevati, trattati e scaricati; nel caso della bioremediation ci fermiamo a meno di 5.000 metri cubi l’anno. Con una battuta: bonificare vuol dire “buono fare”, cerchiamo anche di farlo bene”.