La ricarica controllata della falda (o MAR) è una delle soluzioni possibili per affrontare i problemi di approvvigionamento idrico, insieme all’invaso, al riuso dei reflui, alla desalinizzazione e anche alla riqualificazione fluviale. È un sistema economico ed efficiente, poco utilizzato in Italia. Perché? Lo abbiamo chiesto al professore Rudy Rossetto, coordinatore scientifico di uno dei soli due impianti funzionanti in Italia a norma di legge.
Tra le possibili misure di prevenzione e contrasto delle crisi idriche, c’è la ricarica controllata della falda. Un processo per aumentare intenzionalmente il volume d’acqua normalmente immagazzinato nel sottosuolo, attraverso tecniche che imitano i processi naturali, “in condizioni controllate”. Gli impianti di ricarica delle falde per gli addetti ai lavori si chiamano MAR, per managed aquifer recharge, e il fatto che questa ricarica sia controllata ha l’obiettivo di assicurare un’adeguata protezione della salute umana e dell’ambiente.
I MAR non sono certo una novità; sono stati ampiamente sviluppati già a partire dagli anni 50 e largamente adottati in alcuni Paesi, tra cui l’Australia, i Paesi Bassi, la Spagna e Israele. Molto meno in Italia, dove gli impianti riconosciuti come tali e attualmente attivi sono solo due. Perché? Ne abbiamo parlato con Rudy Rossetto, Professore della Scuola Superiore Sant’Anna Pisa all’Istituto di Produzioni Vegetali, intervenuto a RemTech in un incontro dedicato all’argomento.
MAR, in Italia solo due gli impianti in esercizio e approvati a norma di legge
I due impianti attualmente in esercizio in Italia e approvati a norma di legge – il decreto ministeriale 100/2016 – sono l’impianto di ricarica della conoide del fiume Marecchia in Emilia-Romagna, strategico per l’approvvigionamento idropotabile dell’intera area riminese, e l’impianto di Suvereto, in Val di Cornia in Toscana, realizzato nell’ambito del progetto Life Rewat (partito nel 2015) di cui Rossetto è stato coordinatore scientifico.
Questo non significa che non ne siano stati realizzati diversi altri, attualmente funzionanti e non. Sono stati costruiti impianti di ricarica controllata della falda, adottando alcune delle modalità possibili (principalmente dry well, infiltration pond e bank filtration: pozzi bevitori, bacini di infiltrazione, filtrazione delle sponde)a Vicenza, Padova, Treviso, Pordenone, Udine, Ferrara, Ravenna, Bari, Siracusa, Cagliari e Milano. Alcuni dei quali, specialmente in Veneto, grazie a progetti Life, cofinanziati dalla Commissione europea.
Come funziona l’impianti di ricarica sul fiume Serchio
Tra quelli attivi, però, una serie di impianti “non sono considerati per ora, da chi li gestisce, come impianti di ricarica”, dice Rossetto. Un esempio per tutti, l’impianto di ricarica sul fiume Serchio per l’approvvigionamento di acqua potabile nell’area di Sant’Alessio a Lucca, il cui avvio risale al 1967. Uno schema di “ricarica indotta di subalveo, che permette il richiamo di acque superficiali attraverso le sponde del fiume” (river bank filtration – RBF).
Questo schema sfrutta la connessione idraulica tra l’acquifero e il fiume Serchio attraverso dieci pozzi verticali e una traversa in alveo, e fornisce un volume medio annuo di 15 milioni di metri cubi di acqua potabile con una buona qualità chimica a circa 300.000 abitanti delle città di Lucca, Pisa e Livorno e alle aree circostanti. Il sistema RBF è di gran lunga lo schema di ricarica controllata della falda più diffuso in Italia e in Europa, anche se non è formalmente riconosciuto come tale dalle autorità governative italiane, che non sembrano riconoscere che l’estrazione delle acque sotterranee è sostenuta dalla ricarica indotta e non proviene interamente dalla ricarica naturale delle acque di falda.
“Per la water utility che ha chiesto l’autorizzazione dell’emungimento e per la Regione che l’ha concessa sono semplicemente dei pozzi che emungono acqua da un acquifero”, spiega Rossetto. Che sottolinea come questa questione comporti di fatto un rischio per la salute pubblica. Perché l’impianto, non essendo considerato di ricarica, non deve rispondere alla legge 100/2016 ed eseguire i monitoraggi previsti dalla norma.
L’importanza dei monitoraggi previsti dalla legge 100/2016
“L’esempio più chiaro è proprio questo di Lucca: c’è sempre acqua e di buona qualità perché c’è un fiume con una buona portata, ma se non ci fossero i pozzi non andrebbero nell’acquifero 15 milioni di metri cubi di acqua. Quello che si fa è richiamare acqua di fiume nell’acquifero, per questo è un’opera di ricarica. Bisogna tenere conto però che le acque superficiali sono più sensibili alla contaminazione di quelle nel sottosuolo. Se il Serchio, a un certo punto, venisse inquinato, quest’acqua nel giro di qualche giorno finirebbe nella rete di distribuzione, perché manca un sistema di controllo adeguato”. Sarebbe quindi opportuno, o meglio necessario, che la Regione lo dichiarasse impianto di ricarica, a cui applicare quindi il dm 100/2016. Una questione che non influisce sulle modalità di funzionamento dell’impianto, ma solo sul modo in cui viene regolato.
MAR, una tecnica ampiamente sottoutilizzata in Italia
Nonostante i MAR realizzati nel nostro Paese non siano pochi, dunque, questa tecnica è ampiamente sottoutilizzata. Perché? Quali sono le alternative che preferiamo? “Chiariamo innanzitutto di che cosa stiamo parlando”, precisa Rossetto: di migliorare l’approvvigionamento della risorsa idropotabile o della risorsa irrigua, nella gran parte dei casi, oppure quello di acqua per usi industriali. E le soluzioni per affrontare la siccità sono molto poche: due quelle che si possono mettere in campo a siccità conclamata e due quelle che consentono di lavorare in prevenzione.
In periodo siccitoso, le due soluzioni possibili sono il riuso delle acque reflue opportunamente trattate, da destinare agli usi irrigui, e la desalinizzazione dell’acqua di mare, per l’idropotabile “perché i costi di fornitura per l’agricoltura sono troppo alti, nell’ordine di uno o due euro al metro cubo”. Mentre per lavorare in prevenzione dei periodi di siccità, immagazzinando l’acqua negli anni e nei mesi in cui piove, le tecniche sono gli invasi superficiali e la ricarica delle falde. “L’invaso, infatti, in mancanza di precipitazioni non può essere una soluzione, a meno di fare invasi molto grandi, di 100-150 milioni di metri cubi d’acqua, per avere un buffer pluriennale”.
Perché è vantaggioso immagazzinare l’acqua nel sottosuolo rispetto a soluzioni in superficie? “Perché avendo un acquifero per fare la ricarica, si hanno potenzialmente decine di milioni di metri cubi di vuoti nel sottosuolo in cui è possibile immagazzinare l’acqua. Tanto è vero che si parla in inglese di water banking, cioè mettere in banca quest’acqua nel sottosuolo per poi poterla recuperare al bisogno. La logica che sottostà a questi interventi – prosegue Rossetto – è quella di catturare sempre l’acqua quando ce n’è molta a disposizione, nei periodi umidi”.
MAR economici ed efficienti ma scarsa la sensibilità sulle acque sotterranee
I MAR sono soluzioni economiche ed efficienti, con costi d’investimento relativamente bassi rispetto agli invasi superficiali (1 euro al metro cubo massimo di costi di costruzione contro 5-6 euro al metro cubo), capacità di immagazzinamento di grandi volumi d’acqua nel sottosuolo, in quanto il serbatoio è l’acquifero naturale, bassi costi di trasferimento dell’acqua utilizzando la capacità di trasporto della falda sotterranea, necessità di aree di estensione limitata per le opere impiantistiche, riduzione dei fenomeni evaporativi e di proliferazione di alghe e insetti. Vengono sottoutilizzati in Italia perché “c’è una mancanza cultura, di conoscenza su questi temi”, afferma Rudy Rossetto.
Sebbene si stiano facendo progressi. “Le acque sotterranee sono una risorsa nascosta. Se le sovrasfrutti, se le inquini, te ne accorgi solo quando ne hai bisogno e non le puoi usare. Questa sensibilità sulle acque sotterranee in Italia ancora non c’è”. Ma Rossetto confida nel fatto che ci si arrivi presto. La siccità è un tema sul quale occorre dare anche risposte immediate.
Il riuso delle acque reflue
Sul riuso delle acque reflue, per esempio, sono stati compiuti molti passi avanti negli ultimi anni. Non tanto in termini tecnici, quanto di sensibilità e di normativa. In particolare, un nuovo regolamento europeo, entrato in vigore a maggio 2023, “che dà moltissime indicazioni in buone direzioni per il riuso dei reflui”. Prima le associazioni di agricoltori insistevano sul rischio di irrigare con acqua sporca, di bassa qualità, “oggi si è capito invece che queste acque sono ricche in azoto e in fosforo e possono comportare una diminuzione dei costi nell’uso dei fertilizzanti quindi una diminuzione anche della produzione di gas serra legata alla produzione e al trasporto dei fertilizzanti”.
La depurazione deve essere aumentata ma le tecnologie sono disponibili ormai da 15 anni. “Si parla di diversi milioni di metri cubi d’acqua potenzialmente disponibili, anche per piccoli bacini di qualche centinaio di chilometri quadri”, sottolinea Rossetto, quindi è vero che sono destinati solo a usi irrigui, ma “il loro impiego comporta che altri quantitativi di acqua, ad esempio sotterranea, invece di essere prelevati per l’irrigazione siano disponibili per l’idropotabile o per la conservazione degli ecosistemi”. Una considerazione in più merita anche la desalinizzazione. Una soluzione non soluzione. Perché si va a rispondere a una crisi provocata dal cambiamento climatico con una pratica energivora, che di fatto lo esaspera aumentando le emissioni di gas serra.
MAR, potrebbero fornire in Italia tre miliardi di metri cubi d’acqua annui
Ma torniamo agli schemi di ricarica controllata della falda, e ai numeri. “Si stima che la ricarica delle falde in Italia non fornisca più di 500 milioni di metri cubi d’acqua; considerando che in Italia si consumano 30 miliardi di metri cubi all’anno, come soluzione adottata è marginalissima”. A livello globale potrebbe, secondo le stime, fornire il 10-15% di tutta l’acqua necessaria alla popolazione umana. Una percentuale che, se applicata all’Italia (10% di 30 miliardi), si traduce in tre miliardi di metri cubi di acqua all’anno.
Amsterdam è fornita da 55 milioni di metri cubi d’acqua annui che derivano da ricarica, con 40 bacini e una rete di infiltrazione. Tutto il comparto orto-floro-vivaistico del Medio Oriente, che si trova in Israele nel Neghev, è supportato da 150 milioni di metri cubi annui di acque reflue dell’area metropolitana di Tel Aviv infiltrate nel sistema di Shafdan. In Spagna, l’impianto nella regione Castilla-La Mancha fornisce 12 milioni di metri cubi l’anno. Da noi, quello di Lucca 15 milioni.
Il poco interesse dell’Italia per la ricarica controllata della falda
Stupisce che una soluzione così efficiente e a basso impatto ambientale susciti in Italia così scarso interesse. Forse perché costa troppo poco? Per esempio, se per l’impianto sul Serchio, la cui realizzazione oggi costerebbe circa 5 milioni di euro, si adottasse la soluzione dell’invaso per una capacità equivalente, i costi salirebbero a più di cento milioni di euro. Con tempi di realizzazione di gran lunga superiori.
Già nel 1995 la FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura, osservava che “lo stoccaggio delle acque in superficie, per gli ingenti investimenti necessari, è spesso preferito perché offre una visibilità politica più elevata e perché i costi di costruzione offrono un’opportunità di profitto privato e di corruzione, aprendo la strada a un’influenza impropria sul processo decisionale”. Il MAR, conclude Rossetto, a fronte delle giuste condizioni idrologiche e idrogeologiche del territorio, è la soluzione più efficiente, ed è comunque “parte della cassetta degli attrezzi per la risoluzione dei problemi di approvvigionamento dove sta insieme all’invaso, al riuso dei reflui, alla desalinizzazione e anche alla riqualificazione fluviale, la river restoration di cui pure si parla molto poco”.